La Corte di Cassazione ha affermato che “il reato di falsità ideologica in certificazioni amministrative deve ritenersi sussistente in tutti i suoi elementi quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero, e che ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione” e dunque “alla luce della peculiare natura della prescrizione farmacologica, è evidente, anzitutto sotto un profilo logico, che tale documento non possa essere considerato la mera riproduzione di un fatto già rappresentato da altri documenti; esso, infatti, presuppone un’attività di accertamento diretto da parte del sanitario che emette la prescrizione, che si pone in rapporto di funzionalità con il contenuto della certificazione stessa.”
FATTO E DIRITTO1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Torino, in riforma della sentenza emessa in data 21/02/2014 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di V., con cui P. C. era stato condannato a pena di giustizia per il reato di cui all’art. 480 cod. pen. – così diversamente qualificata l’originaria imputazione di cui all’art. 479 cod. pen. – qualificava la condotta ai sensi dell’art. 481 cod. pen., determinando la pena in euro 500,00 di multa. 2. In data 04/06/2020 P. C. ricorre, a mezzo del difensore di fiducia avv.to B. R., deducendo un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.: violazione di legge, in riferimento all’art. 481 cod. pen., ai sensi dell’art. 606, lett. b) cod. proc. pen., in quanto, nel caso in esame, le due ricette sottoscritte dal C. in data 11/09/2012 e 27/12/2012, contraddistinte dal numero 110912 la prima e 271212 la seconda, non sono riferibili al SSN, trattandosi di ricette così dette “bianche”, ossia ricette libere del medico di base; questi, pertanto, nel caso in esame, non è qualificabile come pubblico ufficiale, bensì come esercente una professione sanitaria – come riconosciuto dalla Corte territoriale -, ma le due ricette in esame non possono costituire certificati, bensì solo scritture private aventi natura autorizzativa, posto che non contengono alcuna attestazione di fatti di cui l’atto stesso è destinato a provare la verità, trattandosi di ricette su carta bianca in cui si prescrive un farmaco senza dare atto di uno stato patologico, quindi prive di valenza certificativa ed a contenuto meramente autorizzatorio, con cui il medico rimuove l’ostacolo che la legge frappone fra il cittadino ed il farmacista al momento dell’acquisto di un farmaco di cui è, appunto, consentita dalla legge la vendita solo se l’utente si munisca di apposita autorizzazione; nei documenti in esame manca, quindi, quel contenuto di dichiarazioni di scienza che connota i documenti individuati dalla fattispecie di cui all’art. 481 cod. pen. . Il ricorso è inammissibile, in quanto reiterativo di argomentazioni ampiamente analizzate dalla sentenza impugnata. Va ricordato che l’istruttoria dibattimentale aveva accertato che presso la farmacia N. di V. erano state acquisite due prescrizioni di A., farmaco a base di testosterone, rilasciate dal dott. C. nei confronti di C. A.; mentre in un primo momento il C. aveva affermato di aver prescritto il farmaco al proprio suocero di 89 anni, da poco operato alla prostata, il farmacista N. aveva ammesso di aver venduto, in realtà, anabolizzanti in assenza di prescrizione medica ad una sola persona e che, pertanto, aveva chiesto al C. il rilascio delle due prescrizioni di comodo, indicandogli le date. Pacifica appare la circostanza, evidenziata dalla Corte di merito, che il C. avesse redatto le due prescrizioni farmacologiche su ricettari liberi, pertanto al di fuori dell’esercizio di attività in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale quindi nel suo ruolo di libero professionista, non potendosi pertanto attribuire al ricorrente la qualifica di pubblico ufficiale, bensì quella di esercente una professione sanitaria; il contenuto della prescrizione – ha affermato la sentenza impugnata – è comunque di natura certificativa, in quanto attesta il diritto dell’interessato all’erogazione del medicinale in conseguenza del riscontrato stato patologico, ciò che, nel caso di specie, era reso evidente dal fatto che il medicinale prescritto era a base di testosterone, la cui commercializzazione è rigidamente regolamentata e subordinata a specifiche finalità terapeutiche. Ne consegue, secondo la Corte territoriale, l’inquadramento della condotta ai sensi dell’art. 481 cod. pen., nonché la constatazione che la prescrizione farmacologica presuppone l’accertamento, da parte del medico, della sussistenza di una condizione patologica che giustifichi la somministrazione del prodotto, a prescindere dall’esplicitazione, sulla ricetta, della diagnosi correlata alla prescrizione. Dal punto di vista dell’inquadramento della fattispecie, correttamente effettuato dalla Corte di merito, va ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con una non recente ma incontestata pronuncia (Sez. U, sentenza n. 18056 del 24/04/2002, Panarelli ed altro, Rv. 221404), che ha chiarito come, non provenendo da un pubblico ufficiale, i certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessità non sono né atti pubblici, tutelabili a norma degli art. 476 o 479 cod. pen., né certificati amministrativi, tutelabili a norma degli art. 477 o 480 cod. pen. L’art. 481 cod. pen., infatti, prevede uno speciale titolo di reato per le falsità ideologiche relative a questi atti, che hanno rilevanza pubblica in quanto certificazioni, ma natura privata in quanto provenienti da soggetti non investiti di pubbliche funzioni. Le Sezioni Unite hanno ricordato come, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, il certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale debba essere connotato dalla presenza di due condizioni: che l’atto non attesti i risultati di un accertamento compiuto dal pubblico ufficiale redigente, ma riproduca attestazioni già documentate e che, pur quando riproduca informazioni desunte da altri atti già documentati, non abbia una propria distinta e autonoma efficacia giuridica, ma si limiti a riprodurre anche gli effetti dell’atto preesistente. A differenza del certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale, quindi, il certificato disciplinato e tutelato dall’art. 481 cod. pen. va individuato in qualsiasi attestazione di fatti rilevanti nell’ambito del servizio di pubblica necessità esercitato dall’autore dell’atto. Proprio detta delimitazione della categoria – secondo le Sezioni Unite – fa sì che “i certificati di esercenti un servizio di pubblica necessità non sono certificati in senso proprio, in quanto possono anche richiedere un accertamento di fatti direttamente percepiti da parte dell’autore dell’atto (Cass., sez. V, 14 dicembre 1977, Cristiani, m. 138192, Cass., sez. V, 26 novembre 1981, Faina, m. 152705)”, in tal senso, quindi, emergendo la differenza tra la categoria dei documenti tutelati dall’art.481 cod. pen. e la categoria dei certificati amministrativi proveniente da un pubblico ufficiale. Pertanto, “I certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessità sono attestazioni private qualificate di una particolare rilevanza pubblica, che ne giustifica la tutela anche contro le falsità ideologiche, punite a norma dell’art. 481 cod. pen.; ma quando i relativi documenti sono oggetto di falsità materiale, per contraffazione o per alterazione, il reato configurabile è quello di falsità in scrittura privata previsto dall’art. 485 cod. pen.” Non vi è alcun dubbio, quindi, alla luce della giurisprudenza di legittimità, che la prescrizione medica, documento compilato da un esercente la professione sanitaria, abbia duplice natura: di atto certificativo, da un lato, in quanto presuppone una condizione di malattia o, comunque, di sofferenza del soggetto che richiede la somministrazione della terapia prescritta e, in tal senso, la prescrizione rappresenta l’attività ricognitiva, da parte del sanitario, circa il diritto dell’assistito alla erogazione di quello specifico medicinale; per altro verso, se ne apprezza la natura autorizzativa, in quanto la prescrizione rende fruibile detto diritto, consentendo all’amministrazione, tramite il servizio farmaceutico, la vendita del medicinale stesso, con rimozione di ogni ostacolo alla erogazione, escluse le ipotesi di farmaci “da banco”, per i quali la vendita è libera, essendo gli stessi commerciabili a prescindere da prescrizione medica. Detta impostazione trova conferma nella giurisprudenza delle Sezioni semplici di questa Corte, altrettanto univocamente orientata nella parte in cui ha approfondito il profilo certificativo dei documenti tutelati dalla disposizione di cui all’art. 481 cod. pen., tra cui la prescrizione farmacologica redatta su ricettario personale del sanitario. E’ stato infatti affermato, sul tema, che il reato di falsità ideologica in certificazioni amministrative deve ritenersi sussistente in tutti i suoi elementi quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero, e che ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione (Sez. 5, sentenza n. 13509 del 13/01/2015, Vabba, Rv. 263066; Sez. 5, sentenza n. 6934 del 16/02/1981, Grassi, Rv. 149762; Sez. 5, sentenza n. 9412 del 03/07/1979, Gavazzi, Rv. 143386; Sez. 5, sentenza n. 2514 del 14/12/1977, dep. 06/03/1978, Cristiani, Rv. 138192; Sez. 6, sentenza n. 11482 del 24/05/1977, Coluccia, Rv. 136820; Sez. 1, sentenza n. 1073 del 25/06/1969, Pietrocola, Rv. 113207). In altre parole, alla luce della peculiare natura della prescrizione farmacologica, è evidente, anzitutto sotto un profilo logico, che tale documento non possa essere considerato la mera riproduzione di un fatto già rappresentato da altri documenti; esso, infatti, presuppone un’attività di accertamento diretto da parte del sanitario che emette la prescrizione, che si pone in rapporto di funzionalità con il contenuto della certificazione stessa. Detta attività di accertamento diretto può assumere varie forme, a seconda dei casi, ma non può certamente basarsi sulla mera riproduzione di una semplice notizia, in quanto, nel prescrivere un farmaco specifico, il sanitario attesta che il soggetto fruitore appartiene ad una delle categorie rispetto alle quali il farmaco è destinato a produrre i propri effetti. Detta attestazione si può basare, evidentemente, su svariate modalità ricognitive: su di una specifica visita del paziente, ovvero sul colloquio personale del medico con il paziente che gli riferisce determinati sintomi, ovvero ancora sullo svolgimento di esami clinico-diagnostici, sulla pregressa conoscenza del paziente da parte del medico e sulle pregresse cure allo stesso somministrate, modalità tutte che, in ogni caso, implicano una cognizione diretta della specifica situazione rispetto alla quale la prescrizione si pone come necessaria. Ciò che rileva, infatti, non è la specifica modalità ricognitiva a monte dell’attestazione, bensì la circostanza che un’attività diretta di ricognizione vi sia stata, posto che – a norma dell’art. 22 del Codice Deontologico adottato dal Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri – il sanitario, nel redigere certificazioni, deve valutare ed attestare soltanto dati clinici che abbia direttamente constatato, ossia dati obiettivi di competenza tecnica che abbia personalmente accertato in totale aderenza alla realtà. Ad esempio, un sanitario che conosce già la situazione di un paziente, per averlo in cura da tempo, a fronte di determinati sintomi ricorrenti, sarà in grado di procedere ad una prescrizione anche prescindendo da una visita accurata, ed all’esito di un semplice colloquio con il paziente stesso. Al contrario, allorché lo stato patologico non sia riscontrabile a mezzo dell’esame obiettivo e/o degli accertamenti strumentali, il medico non può affermare di aver trovato il paziente affetto dalla patologia lamentata, ma deve certificare solo che il paziente riferisce determinati sintomi; in sostanza, proprio l’art. 22 del Codice Deontologico prevede che il medico, nel redigere le certificazioni, debba attestare solo dati clinici che abbia direttamente constatato, al fine di evitare il rilascio di certificati di comodo; certamente, quindi, non può essere considerata attività ricognitiva – nonostante la prassi diffusa in tal senso – quella del medico che prescriva un farmaco semplicemente colloquiando al telefono con un assistito mai incontrato, il quale gli descrive determinati sintomi, senza averlo mai visitato e senza neanche conoscerne, ad esempio, le potenziali reazioni allergiche ad un determinato farmaco. Sicché deve affermarsi che la prescrizione di un medicinale presuppone, in linea generale, che il medico abbia visitato il paziente e abbia riscontrato l’esistenza di una patologia o di un disturbo per la cui cura è necessario il farmaco prescritto nella ricetta. Ovviamente questo principio vale in senso ampio, atteso che se il medico conosce il paziente ed è a conoscenza del tipo di patologia da cui è affetto (ad esempio nel caso di malattie croniche), può anche rilasciare la ricetta senza dover necessariamente visitare ogni volta il paziente. L’importante, però, è che il medico non rilasci mai ricette “al buio”, senza essere sicuro della patologia esistente o basandosi soltanto su quanto gli viene riferito, senza aver provveduto a riscontrare oggettivamente la sussistenza della patologia. Ne consegue, quindi, che in tal senso deve sicuramente affermarsi, in relazione alla specifica natura della prescrizione farmacologica, come essa non possa basarsi su di una mera notizia fornita da parte di chi la richiede. In questi termini non può non convenirsi con gli approdi ermeneutici che hanno ribadito come un documento proveniente da un medico può qualificarsi certificato medico, ai sensi e per gli effetti di cui all’art 481 cod. pen., in quanto il suo contenuto rappresenti una “certificazione”, attesti, cioè, fatti dei quali l’atto é destinato a provare la verità, per cui il reato di falsità ideologica in certificazione amministrativa deve ritenersi sussistente in tutti i suoi elementi quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti, esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che siano non rispondenti al vero, e ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione (Sez. 5, sentenza n. 6934 del 16/02/1981, Grassi, Rv. 149762). Non può, invece, concordarsi con una rigida presunzione, quale, ad esempio, quella che sembra richiamata da Sez. 5, sentenza n. 2659 del 26/11/1981, dep. 10/03/1982, Faina, Rv. 152705, secondo cui “I certificati rilasciati da chi esercita un servizio di pubblica necessità, che non riproducano un fatto già rappresentato da altri documenti, presuppongono un’attività diretta di accertamento da parte di chi emette il certificato”. Tale pronuncia, infatti, ha affermato che il certificato medico implichi necessariamente la visita del paziente da parte del sanitario che lo ha rilasciato. Si tratta, in realtà, di un’affermazione che può essere condivisa solo in parte, nel senso che – come già in precedenza chiarito – ciò che rileva dal punto di vista della certificazione, nel caso previsto dall’art. 481 cod. pen., è la individuazione, da parte del sanitario, del titolare del diritto all’acquisizione del farmaco come soggetto che rientra nella categoria – o in una delle categorie – rispetto alla quale il farmaco svolge la propria finalità curativa. In tal modo, quindi, la funzione accertativa si pone in rapporto di causalità con la funzione autorizzatoria che, per altro aspetto, caratterizza il documento. Sarebbe, al contrario, eccessivo dilatare la portata della norma dando per implicito che ogni prescrizione farmacologica corrisponda necessariamente ad una visita del sanitario, automatismo che non può essere individuato soprattutto nei casi – come quello in esame – di assenza nel certificato di una anamnesi e di una diagnosi, che mancano anche sotto l’aspetto grafico. Come detto, infatti, ciò che rileva è la funzione certificativa del sanitario, nel senso indicato, non anche come il sanitario stesso sia pervenuto a porre in essere la certificazione medesima, se attraverso una visita del paziente, un colloquio visivo con lo stesso o altro, soprattutto in considerazione della variegata tipologia di relazione professionale che può sussistere tra un medico ed i suoi pazienti, nonché in considerazione della diversissima tipologia di farmaci prescrivibili. Occorre, quindi, ai fini di inquadrare correttamente i profili rilevanti nel caso di specie, ricordare la differenza tra le varie tipologie di ricette, per quanto di interesse, fermo restando che entrambe condividono la medesima funzione accertativa, come dinanzi descritta (Sez. 5, sentenza n. 13509 del 13/01/2015, Vabba, Rv. 263066; Sez. 5, sentenza n. 33548 del 23/03/2005, Cantalino, Rv. 232332) In particolare rileva la differenza tra la ricetta redatta su ricettario regionale – che permette l’erogazione di farmaci e prestazioni a carico del servizio sanitario regionale – e la cosiddetta ricetta “bianca” del ricettario personale del medico, che permette comunque ‘erogazione delle prestazioni e dei farmaci, a completo carico del cittadino. La prima è anche detta ricetta “rossa” o “rosa’, così definita per la bordatura colorata dei campi in cui il medico inserisce i dati necessari, può essere compilata solo dai medici dipendenti di strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale e viene utilizzata per la prescrizione di una terapia farmacologica, la prescrizione di un esame diagnostico o una visita specialistica a carico del detto Servizio Sanitario Nazionale. I medici dipendenti di strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale utilizzano questo ricettario solo nell’ambito dell’esercizio della loro attività di medici del servizio stesso; se un medico svolge anche attività privata, in quei contesto egli non e più un “medico pubblico”, bensì un medico privato e, quindi, non può prescrivere farmaci, viste o esami a carico del Servizio Sanitario Nazionale, ma deve utilizzare esclusivamente la cosiddetta “ricetta bianca”, così come il medico ospedaliero che svolge anche attività libero professionale in intramoenia, ambito nel quale non può usare il ricettario regionale. La ricetta bianca, invece, e quella che il medico compila su carta bianca, sulla quale devono essere, però, riportati il nome e cognome del medico, la data, il luogo e la sua firma autografa. In questo tipo di ricetta, quindi, non sono necessari né il nome dell’assistito né l’indicazione dell’anamnesi, Con la ricetta bianca possono essere prescritte tutte le prestazioni di specialistica ambulatoriale, di diagnostica strumentale e di laboratorio, di norma correlate alla branca di specializzazione del medico, ed i farmaci, prestazioni che saranno sempre a carico del cittadino assistito. Per completezza va ricordato che la ricetta rossa, una volta cartacea, e ora sempre più sostituita dalla ricetta elettronica o dematerializzata; si tratta di una vera e propria ricetta virtuale, che il medico compila usando uno specifico programma del sistema sanitario della regione, per cui è abilitato. Per permettere ai cittadini di prenotare esami e visite e ritirare i farmaci, il medico stampa un “promemoria” su carta comune, che riporta campi e informazioni dello stesso tipo della ricetta rossa del servizio sanitario; il medico, inoltre, inserisce al computer le stesse informazioni di cui necessita per compilare la ricetta rossa cartacea. Non c’è, quindi, alcuna differenza, in quanto la ricetta elettronica ha le stesse caratteristiche della ricetta rossa – che, tuttavia, è ancora necessaria per alcune specifiche tipologie di prescrizioni (ossigeno, farmaci stupefacenti, sostanze psicotrope, ed altro) – in termini di capacità di prescrizione da parte del medico e di validità temporale, con il vantaggio che, al contrario della ricetta cartacea, quella elettronica permette di ritirare farmaci in qualunque regione, anche diversa dalla propria, senza pagare il prezzo del farmaco, ma solo il ticket della propria regione di residenza e l’eventuale differenza rispetto al prezzo di riferimento del generico a più basso costo. La ricetta redatta sul ricettario del Sevizio Sanitario Nazionale e la ricetta bianca differiscono, quindi, anche perché solo sulla prima devono essere indicato il nome e il cognome dell’assistito, il suo codice fiscale, il codice dell’Azienda Sanitaria di riferimento, gli eventuali codici e motivi di esenzione e l’eventuale nota AIFA pertinente, salva la richiesta dell’assistito che sul proprio nome e cognome sia apposta una etichetta adesiva per tutelare la sua riservatezza. La ragione di tale differenza sta nel fatto che la prescrizione del Servizio Sanitario Nazionale non occorre solo per ritirare i medicinali in farmacia, ma è necessaria anche al farmacista per farsi rimborsare dallo Stato il costo dei medicinali forniti agli assistiti. Questa ricetta, quindi, ha anche una finalità amministrativa e contabile, perchè con essa il medico pone a carico della finanza pubblica la spesa dei medicinali, con la conseguenza che eventuali prescrizioni di farmaci a carico del Servizio Sanitario Nazionale che siano ritenute inappropriate, possono essere contestate al medico da parte della Corte dei Conti. Tali requisiti, al contrario, non sono richiesti per la “ricetta bianca”, data la sua funzione, appena descritta, sicché proprio dette caratteristiche consentono di considerare non condivisibile l’affermazione secondo la quale anche tale tipo di ricetta implichi necessariamente la preventiva visita del paziente da parte del sanitario che la ha rilasciata, non potendosi considerare verificata, in virtù di un ingiustificabile automatismo, una circostanza che non corrisponde neanche ad un’informazione necessaria ai fini della compilazione della prescrizione, posto che l’anamnesi e la diagnosi – come visto – non sono elementi essenziali ed indefettibili della ricetta bianca. Ciò nondimeno, il documento, come detto, conserva intatta la propria valenza certificativa – su cui, quindi, può innestarsi il falso ideologico – nella misura in cui attesti, attraverso la prescrizione, che l’assistito abbia diritto a quella specifica prestazione o a quel determinato farmaco, a prescindere, quindi, dalla peculiare modalità con cui l’accertamento medico è stato effettuato che resta, in questa tipologia di documenti, in un certo senso sullo sfondo, nella misura in cui non è richiesta una specifica tipologia di verifica da parte del medico, che non deve essere neanche attestata; ciò che rileva infatti, è l’attestazione che l’assistito rientri nella categoria dei soggetti aventi diritto alla specifica prestazione farmacologica. Ne discende, quindi, come nel caso di specie la valutazione operata dalla Corte territoriale appaia in linea con tale incontrastato inquadramento giurisprudenziale, posto che entrambe le ricette “bianche” rilasciate dal C. risultano ideologicamente false, sia quanto all’identità dell’assistito a cui il farmaco era stato rilasciato sia, quindi, in riferimento alla totale carenza dei presupposti per la prescrizione del farmaco. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.