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Cresce l'(ab)uso di integratori di vitamina D. E i rischi?

Per quanto un deficit della vitamina D sia stato associato, soprattutto in alcune popolazioni, allo sviluppo di diverse patologie, non è chiaro se la sua assunzione mediante integratori o diete specifiche porti a dei benefici reali al di fuori della salute ossea. Tuttavia, da quanto emerge da uno studio dell’University of Minnesota i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of the American Medical Association (JAMA), circa un americano su cinque cerca volontariamente di integrare i propri livelli di vitamina D (1). Inoltre una porzione significativa e in crescita di questi soggetti assumerebbe integratori in quantitativi superiori a quelli definiti sicuri dalle linee guida internazionali, esponendosi al rischio di effetti collaterali rilevanti legati a un eccessivo assorbimento di calcio.

“La vitamina D è essenziale per il metabolismo delle ossa e, inoltre, favorisce il mantenimento di un livello appropriato di calcio e fosfato nel sangue”, ha spiegato Pamela Lutsey, tra gli autori della ricerca presso l’University of Minnesota, intervistata da Reuters (2). “Tuttavia, un’assunzione eccessiva di vitamina D può determinare un iperassorbimento di calcio, con la conseguente formazione di depositi dannosi in alcuni tessuti molli, come il cuore e i reni”. Secondo le linee guida internazionali il fabbisogno giornaliero di questa vitamina è di 600 Unità internazionali (UI) per gli adulti di età inferiore ai 70 anni e di 800 UI per quelli di età superiore; è invece da considerarsi pericolosa per la salute un’assunzione quotidiana superiore alle 4000 UI (1).  In generale, si considera il valore delle 1000 UI giornaliere come indicativo della volontà di aumentare i propri livelli di vitamina D.

I ricercatori della Division of Epidemiology and Community Health dell’University of Minnesota hanno quindi deciso di indagare l’assunzione di questi integratori in una popolazione di 39.243 adulti nel periodo di tempo compreso tra il 1999 e il 2014. Per farlo hanno preso in considerazione i dati provenienti dal National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), un sondaggio condotto a livello nazionale che valuta la salute e l’alimentazione dei cittadini americani (3).  Dai risultati è emerso che la percentuale dei soggetti che assume quotidianamente più di  1000 UI è cresciuta dallo 0,3% del biennio 1999-2000 al 18,2% del biennio 2013-2014. Inoltre, è aumentato anche il numero di coloro i quali assumono più di 4000 UI al giorno, esponendosi al rischio di effetti collaterali: dallo 0,1% del 1999 al 3,2% del 2014.

I dosaggi più elevati di vitamina D si sono riscontrati tra le donne, gli anziani e, in generale, gli individui di etnia caucasica. Al momento dell’ultimo rilevamento, nel biennio 2013-2014, il 6,6% degli individui di età superiore ai 70 anni è risultata assumere almeno 4000 UI al giorno di questa vitamina, mentre nel 2007 questa percentuale era risultata pari allo 0%. Inoltre, la porzione di intervistati caratterizzata da un’assunzione superiore al valore soglia delle 4000 UI è risultata del 6,6% anche nel sottogruppo di età compresa tra 60 e 69 anni, del 4,2% in quello delle donne e del 3,9% nella popolazione di individui di etnia caucasica.

Un parte considerevole e in aumento di cittadini americani provvede quindi a integrare il proprio apporto quotidiano di vitamina D. Secondo un report del 2011 dell’Institute of Medicine (IOM, ora National Academy of Medicine), supplementi di questo tipo sono però utili solo in particolari categorie di persone, come quelle in età avanzata, che vivono in ambienti poco illuminati o per le etnie caratterizzate da pelle scura (4). Infatti, la fonte principale di vitamina D per l’uomo è la radiazione solare, la quale stimola la produzione di questi pro-ormoni liposolubili. Un approvvigionamento secondario deriva invece dall’alimentazione, in quanto alcune pietanze, come il fegato di manzo, il salmone in scatola, le sardine, i formaggi, i tuorli d’uovo, il latte fortificato e il succo d’arancia, ne contengono discreti quantitativi. Tuttavia, nei casi in cui l’esposizione solare è problematica e l’assunzione di vitamina D mediante la dieta non risulti sufficiente i medici consigliano di sopperire al deficit con l’assunzione di integratori.

Quando eccessiva, come nel caso del 3,2% dei partecipanti allo studio dell’University of Minnesota che oltrepassavano il livello soglia delle 4000 UI giornaliere, questa può però esporre al rischio di reazioni avverse. Un’assunzione troppo elevata si associa infatti, soprattutto se combinata con integratori del calcio, a una probabilità maggiore di sviluppare un cancro del pancreas e della prostata o di andare incontro a morte per qualsiasi causa. Un rischio considerevole se si considera che non esistono prove relative ai benefici di questi integratori al di fuori della salute ossea (4). “In genere le persone giovani, o comunque sane, con un’adeguata esposizione solare hanno poche probabilità di avere un deficit di vitamina D”, ha commentato Matthew Drake, ricercatore della Mayo Clinic di Rochester non coinvolto nello studio. “Per la maggior parte delle persone che ce l’hanno, un supplemento di 1000-2000 UI giornaliere è più che sufficiente affinché questi restino in un range ottimale”.

“Non sempre più è meglio”, si legge nella conclusione del rapporto dell’IOM del 2011. I risultati dello studio pubblicato su JAMA dimostrano che una parte considerevole di cittadini americani assume troppi integratori della vitamina D. Assunzione che in molti casi è talmente elevata da predisporre al rischio di conseguenze negative per la salute. “Per quanto ricerche precedenti abbiano fatto luce su potenziali benefici associati all’assunzione di questi integratori, dosaggi troppo elevati possono essere rischiosi”, concludono gli autori. “Un trial clinico randomizzato ha messo in evidenza come un’assunzione elevata di supplementi della vitamina D si associ a un rischio maggiore di fratture e cadute e, quando prese in combinazione con integratori per il calcio, di calcoli renali (5). Infine, studi epidemiologici hanno individuata un’associazione tra un consumo elevato e la probabilità di sviluppare un cancro o di andare incontro a morte per qualsiasi causa (6,7)”.

Queste evidenze sono da tenere in considerazione anche nel nostro paese.  Secondo i dati dell’Osmed, i consumi della vitamina D e dei suoi analoghi sono aumentati di tre volte tra il 2011 e il 2015 e ancora in aumento nei prime mesi del 2016. Un incremento che non trova giustificazione né nella prevalenza dei trattamenti farmacologici dell’osteoporosi, né in brusche variazioni epidemiologiche della ipovitaminosi nella popolazione.

A cura de Il Pensiero Scientifico Editore su www.torinomedica.com

Bibliografia

1. Rooney MR, Harnack L, Michos ED, et al. Trends in Use of High-Dose Vitamin D Supplements Exceeding 1000 or 4000 International Units Daily, 1999-2014. JAMA 2017; 317: 2448-50.
2. Rapaport L. Many Americans taking too much vitamin D. Reuters 2017; pubblicato il 20 giugno.
3. Centers for Disease Control and Prevention. National Health and Nutrition Examination Survey.
4. Institute of Medicine. Dietary reference intake for calcium and vitamine D. National Academy of sciences 2011.
5. Scragg R, Stewart AW, Waayer D, et al. Effect of monthly high-dose vitamin D supplementation on cardiovascular disease in the Vitamin D Assessment Study: A randomized clinical trial. JAMA Cardiol 2017; 2: 608-16.
6. Nelson SM, Batai K, Ahaghotu C, et al. Association between Serum 25-Hydroxy-Vitamin D and Aggressive Prostate Cancer in African American Men. Nutrients 2017; 9: 12.
7. Hummel D, Aggarwal A, Borka K, et al. The vitamin D system is deregulated in pancreatic diseases. Journal of Steroid Biochemistry and Molecular Biology 2014; 144: 402-9.

Autore: Redazione FNOMCeO

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