Nel febbraio 2016 Suor Rita, suora orsolina, con una lettera aperta ha chiesto a Papa Francesco: "Perché il volto della chiesa ufficiale è espresso unicamente al maschile?. Questa unicità maschile, questa assenza di donne, oso dire questa disuguaglianza, tradisce il Vangelo di Gesù. Si dice che la Chiesa deve respirare con i due polmoni, riferendosi alla Chiesa orientale e occidentale, ma io credo, anche e soprattutto oggi, che la Chiesa debba sapere e voler respirare con i due polmoni, maschile e femminile. Caro Papa Francesco, fra le tante ‘rivoluzioni’ che sei chiamato a portare avanti, libera il volto della Chiesa dalla sua schiavitù maschile e restituiscile il volto bello, luminoso e trasparente di Dio madre e padre; il volto divino-umano di Gesù che parla di vita, di compassione, di misericordia”.
Stiamo vivendo l’anno del Giubileo straordinario della Misericordia. Viene detto, a credenti e non credenti, sia che il pozzo della misericordia non si prosciuga mai sia che bisogna voler attingere da questo pozzo.
Il termine misericordia ci ricorda Adriana Valerio, storica e teologa italiana, può essere ricondotto al termine ebraico rachàm (utero, grembo, seno; al plurale intestini, visceri). È un rimando all’intenso amore della madre verso il proprio figlio perché l’utero è la sede della compassione, della compartecipazione al dolore dell’altro e dell’accoglienza verso l’altrui destino. La pietà (rachàm) di Dio è paragonata a quella di una donna verso il bambino che ha partorito e alla misericordia di un padre verso i propri figli. Nella spiritualità ebraica Dio ha l’utero: è un padre misericordioso. Albino Luciani, Papa Giovanni Paolo I, papa per un solo mese, lo aveva detto nel 1978: “Noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile: Dio è papà, più ancora è madre”.
Il termine “misericordia”, non legato alla sola religione, ha significato di clemenza, mitezza, benevolenza, umanità.
Un esempio di centinaia di anni fa: Shakespeare, portandoci in immaginarie aule di tribunali nel Mercante di Venezia, fa dire alla colta e generosa Porzia:
“Nessuno di noi si salverebbe se giudicato secondo giustizia.
La clemenza per sé non mai soggiace
a costrizione; essa scende dal cielo
come pioggia gentile sulla terra
due volte benedetta:
perché benefica chi la riceve
come chi la dispensa.”
Oggi più di ieri sentiamo le rassicuranti visioni del quotidiano mischiate con sequenze di immagini insanguinate e morte. È successo nelle recenti stragi e negli imprevedibili, gravi incidenti in cui è difficile distinguere quel che è apparentemente innocuo da ciò che può precedere la morte. Il confine tra normalità e dramma collettivo è, troppe volte, sempre più lieve. Non sempre una volontà omicida, sempre la casualità del trovarsi nel posto e nel momento sbagliato. Noi tutti possiamo continuare a vivere solo valorizzando la normalità del nostro quotidiano ordinario.
A indicarci possibili soluzioni per sanare la conflittualità che ci circonda è ancora una volta una donna: Jacqueline Morineau, ultraottantenne. Ci ha dato una sintesi del suo sapere, a marzo a Brescia, dal bel convegno "In benessere:…vissero felici e contenti", organizzato da Annalisa Voltolini.
I suoi strumenti di mediazione, umanistica e trasformativa, poggiano sulla cultura del mondo antico e l’archeologia classica: "I greci avevano avuto la bella idea di drammatizzare le situazioni e di metterle in scena, con le sue tappe – teoria, crisi e catarsi – come strumento di vita. La mediazione è la stessa cosa. La mediazione accoglie il dramma e conduce la sofferenza verso un altro livello. Nella tragedia greca, il ruolo del mediatore è svolto dal pubblico, che apprende dalla scena, e dal coro, che accompagna, sollecita, interroga gli attori”.
Il mediatore riceve ciò che viene espresso diventando specchio per riflettere le emozioni; nello spazio vuoto del silenzio accoglie e in assenza di giudizio lascia alle parti la capacità di essere.
"La mediazione accoglie il disordine. È un tempo e un luogo dove il dolore può raccontarsi e dove si può scoprire – dice Jacqueline Morineau – che i nostri conflitti non sono necessariamente distruttivi, ma possono essere anche generatori di nuovi apporti". Sembra quasi di sentire sullo sfondo Aristotele che avverte che la felicità è un’attività, non un possesso, e che l’attività è evidentemente un divenire…
Il cerchio della misericordia si completa quando Morineau ricorda come la dimensione spirituale non sia legata alla sola religione: il corpo non dove essere ignorato, l’anima deve essere accolta con tutte le sue emozioni.
Possiamo anche noi trovare la possibilità di cambiamento imparando a vivere la misericordia nel nostro quotidiano.
Mi piace farlo confortata dallo sguardo di genere di donne eccellenti, rievocando il dire di Gesù: “Felici i misericordiosi, poiché sarà loro mostrata misericordia”.
Mi piace pensare che i problemi della sanità e quelli della professione possano essere affrontati anche con questi strumenti.
Annarita Frullini
Autore: Redazione FNOMCeO