Nella giornata del 25 novembre si è celebrata la Giornata internazionale per l’eliminazione delle violenze sulle donne.
Per definire il femminicidio da un punto di vista medico legale parliamo con Dalila Ranalletta, Direttore UOC Medicina Legale ASL RM A, che ha svolto quest’argomento nel corso di aggiornamento “Le ferite nascoste delle donne” organizzato dall’OMCeO di Roma, in presenza di un ampio numero di medici, uomini e donne. E’ un modo per proseguire la riflessione della giornata internazionale, radicandola nella situazione del nostro Paese.
Dottoressa Ranalletta perché avviene il fenomeno del femminicidio?
Il femminicidio è possibile perché vi è una ineguale distribuzione di potere tra uomo e donna e non raramente quest’ultima è ritenuta complice o istigatrice della violenza subìta. E’ il prodotto di un consolidamento progressivo del potere non raramente patologico e generalizzato dell’uomo nei confronti della donna. Solo se lo Stato si impegna, con politiche adeguate, ad abbattere gli stereotipi che tuttora affliggono l’immagine della donna, ad investire concretamente nella promozione sociale della donna, a rendere effettivi gli strumenti di tutela disponibili, a garantire la certezza della pena per gli autori della violenza di genere, è possibile pervenire ad un contesto ideologico e sociale fondato sul rispetto dell’altro e sulla parità di genere.
I fatti che registriamo e di cui siamo spettatori passivi quasi ogni giorno esprimono questa violenza in forme molteplici…
La violenza sulle donne può manifestarsi in forme differenti e può provenire anche dalla struttura sociale di riferimento o da pratiche tradizionali o religiose, tanto che si parla di “hidden gendercide”, il “genericidio nascosto”, per il numero sconvolgente di donne scomparse nel mondo, che è comparabile ad un Olocausto che si ripete ogni quattro anni. Parlare di femminicidio come fenomeno globale, non ci autorizza però a tacere sulla nostra realtà, dove la violenza sulla donna viene identificata solo quando si manifesta nelle forme più estreme e straordinarie.
Vi sono dati numerici che possono esprimere la consistenza del fenomeno che fino a qualche anno fa in Italia veniva classificato come delitto passionale?
Vi è una mancanza impressionante di dati e statistiche sul fenomeno, reperibili a volte per alcuni Paesi e mai completi. Dice Patrizia Romito: “ Il non detto è indicatore politico di indifferenza e oscurantismo verso realtà problematiche, che generano un dolore non riconosciuto e non quantificato, e in quanto tale non guaribile ”. È del 2007 il Rapporto ISTAT che ha analizzato La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia. Fu condotto su un campione di 25.000 donne tra i 16 e i 70 anni, intervistate, con tecnica telefonica, su tutto il territorio nazionale: svelò la presenza di un insospettato 31,9% di donne vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita.
Allora questi numeri crearono sconcerto. Oggi abbiamo compreso che la violenza non è solo fisica e che i maltrattamenti portano la persona a livelli minimi di reattività psicologica, accelerano i processi di “invecchiamento cellulare” e influenzano la risposta immunitaria.
Abbiamo numeri sul femminicidio?
Nel 2011 i femminicidi sono stati il 30,9% degli omicidi totali. Nel 1991 erano l’11%.
Il 47,2% dei casi avviene entro tre mesi dalla rottura/conclusione di una relazione.
Nel 40,5% dei casi il femminicidio avviene all’interno di coppie unite, che non presentano criticità palesi. In Italia nel 2012 vi sono stati 170 femminicidi. Sono dati del Rapporto Eures-Ansa 2013 sull’omicidio volontario in Italia. Si stima che nel nostro paese ogni 96 ore una donna venga uccisa per mano del marito, del fidanzato, del convivente o di un ex. Circa gli altri reati il sommerso è elevatissimo: non vengono denunciate il 96% delle violenze da un non partner ed il 93% delle violenze subite dal partner. Non vengono denunciati il 91,6% degli stupri. Ricordiamo anche che il 69,7% degli stupri è opera del partner, il 17,4% di un conoscente, solo il 6,2% di estranei.
E’ ormai chiaro che il femminicidio (o comunque la violenza di genere) non è un fatto privato ed occasionale, commesso dal “mostro sconosciuto”: è un fenomeno assolutamente trasversale in quanto interessa tutte le classi sociali e avviene all’interno di quella che l’ONU riconosce nelle dichiarazioni internazionali come l’”unità fondante della società”, la famiglia, con la conseguenza che spesso viene ignorato o sottovalutato.
Il contrasto della violenza di genere viene affrontato dalla Legge 15 ottobre 2013, n. 119 che prevede anche l’inasprimento delle pene per violenza commesse in danno o in presenza di minorenni o in danno di donne incinte. Da questa legge come viene delineato il ruolo della donna, che non è un soggetto fragile ma può avere “nei percorsi di vita, condizioni di particolare vulnerabilità e situazioni in cui i margini di autonomia possono essere ridotti”?
La legge ha voluto tutelare anche all’interno del processo penale la persona offesa, nel caso di soggetto maggiorenne, presentandola come particolarmente esposta e vulnerabile. In realtà le Convenzioni internazionali in materia di diritti umani delle donne, ratificate dall’Italia, impongono di considerare le donne vittime di violenza non come soggetti deboli ma come soggetti “resi vulnerabili” dalla violenza subita. Questa corretta impostazione della violenza di genere, proposta tanto dal Comitato CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) quanto dalla Convenzione di Istanbul, indica chiaramente il risultato a cui bisogna tendere: non (o comunque non solo) garantire la tutela, ma anche promuovere la trasformazione della matrice culturale e sociale della violenza sulle donne, rimuovendo i comportamenti di disprezzo o prevaricazione, di modo che esse possano davvero esercitare i loro diritti fondamentali. L’Italia (come altri Paesi) soffre della mancanza di “education and professional training” sul tema della violenza di genere, tanto all’interno della scuola e dei corsi universitari dove si formano gli operatori che vengono a contatto con questa realtà, tanto di quelle rivolte ai professionisti (forze dell’ordine, medici, medici legali, operatori sociali). La nuova Legge non trascura questo aspetto. Fino a 2-3 anni fa consideravamo il femminicidio ritenendolo un fenomeno occasionale e di natura privata. Abbiamo così tollerato che la violenza di genere non venisse riconosciuta neppure al momento della denuncia o della cura, con operatori delle forze dell’ordine poco preparati, denunce sottovalutate, indagini svolte con superficialità e lentezza, operatori sanitari privi di qualsiasi formazione specifica ed ingiustizie, al momento dell’applicazione della legge, perché i soggetti giudicanti mancano di prospettiva di genere.
Come si può contrastare efficacemente la violenza di genere?
Sono necessari progetti a lungo termine, che necessitano anche di risorse importanti. E’ necessario poi “porsi in ascolto” e “comprendere ciò che si ascolta”: i professionisti e i servizi che potenzialmente vengono a contatto con donne che hanno subito o rischiano di subire violenza devono essere formati per non sottovalutare i segnali di violenza in famiglia che invece, troppo spesso, non vengono riconosciuti e dunque trascurati e che, frequentemente, sfociano poi in fatti drammatici come il femminicidio. Filippo Facci afferma che la soluzione del problema femminicidio sarà sempre “vagone e non locomotiva, sempre a strascico di un’evoluzione complessiva della società, e una disparità tra generi che in Italia persiste più che altrove.”
Crede che una maggiore comprensione delle cause che generano violenza possano aiutarci a creare percorsi di riabilitazione/recupero/reinserimento per il persecutore?
Sicuramente. Ma occorrerebbe anche bilanciare l’esigenza di perseguire il reo e provvedere alla sua “riabilitazione”, nonché di tutelare la collettività, con l’esigenza di protezione della vittima tenendo conto della sua sensibilità e dei suoi bisogni. Vittima spesso soggetta a “vittimizzazione secondaria”, consistente nelle reazioni, dal punto di vista emotivo, che possono derivarle dall’impatto con la giustizia penale e con il clamore che consegue alla denuncia, che vengono spesso percepiti come un’esperienza ostile e frustrante, e che possono comportare conseguenze addirittura più negative di quelle del reato.
Autore: Redazione FNOMCeO