“Vorrei proporre di bandire un piano nazionale per la medicina di genere, ricordando che con questa definizione non intendiamo sviluppare una sorta di medicina delle donne, bensì dar vita ad una medicina che curi in modo più appropriato uomini, donne e bambini”. Il momento forse più acuto, dal punto di vista delle politiche e delle strategie sanitarie, del convegno "Le donne medico e la medicina di genere" (Firenze, 6 giugno 2014), è stato fissato in queste parole di Flavia Franconi, farmacologa e assessore alla salute della Regione Basilicata. Una ipotesi di “piano nazionale” immediatamente plaudita da Grazia Emilia De Biasi, presidente della XII Commissione sanità del Senato, nella speranza che il ministero della Salute, cui afferiscono questo tipo di scelte programmatorie, sia sensibile alla proposta e al tema visto che, come ha sottolineato Giovanni Leonardi, direttore generale presso il dicastero, “la medicina di genere é negli interessi prioritari del ministro”.
Parole dunque importanti e visione sicuramente impegnativa, espresse durante un convegno – ottimamente coordinato da Teresita Mazzei e promosso con entusiasmo dal Comitato Pari opportunità dell’OMCeO di Firenze in collaborazione con la FNOM – che ha affrontato uno dei temi importanti del dibattito in sanità, da una prospettiva nuova, quella delle donne impegnate professionalmente in medicina. Il punto chiave del simposio è comunque qui, nelle parole della Franconi, condivise e documentate nelle relazioni di Giuseppe Costa (di cui pubblichiamo in altro articolo l’intera relazione) e di Valeria Manicardi: medicina di genere non è medicina delle donne, ma è un nuovo approccio per superare profondi gap di natura sociale.
Questo punto cardine dell’approccio profondo alla medicina di genere, era già stato intuito da Bernardine Healy (cardiologa americana scomparsa nel 2011), quando nel 1991 pubblicò sul New England Journal of Medicine il saggio "The Yentl syndrome" e che a distanza di pochi anni vide conferma all’interno dell’Equity act dell’Organizzazione mondiale della Salute (1995). Una medicina che da un lato ricorda che “le donne non sono piccoli uomini” (Who), e che dall’altro si fa cosciente del fatto che la riduzione delle diseguaglianze nella salute (Rapporto Who Closing the Gap e risoluzione del Parlamento europeo, 2011) passa attraverso una corretta analisi dei rapporti tra diseguaglianze sociali, fattori di rischio e appropriatezza diagnostico-prescrittiva.
Quando si parla di appropriatezza, si entra in un terreno “minato”. Come già sottolineato nel Comunicato emesso durante il convegno, i lavori del simposio hanno permesso di analizzare i molteplici bias di genere presenti all’interno delle stesse aree terapeutiche, della pratica medica e della ricerca farmacologica. Diagnosi, cura, incidenza, mortalità, sperimentazione e trials, assistenza, dimostrano come in ambito cardiovascolare (su cui è intervenuta Rosanna Abbate), diabetico (con la relazione di Valeria Mancardi), epatico (dove ha relazionato Erica Villa), chemioterapico (con gli interventi di Gabriella Bernini e Teresita Mazzei) e traumatologico (con la relazione di Liliana Dell’Osso), la mancanza di un corretto approccio di genere porti a diagnosi inefficaci e a pericolosi sottotrattamenti.
Attenzione: non che il Paese sia immobile, nei confronti del tema. Durante la tavola rotonda moderata da Amedeo Bianco e Giovanni Leonardi, sono state descritte molte attività virtuose che coinvolgono strutture, professionisti della salute, caregiver e formatori: Anna Maria Celesti ha illustrato i progetti della Regione Toscana, dove è partita per la prima volta un’attività regionale di formazione all’assistenza di genere, con azioni che vanno dall’analisi delle gravidanze come finestra sulle patologie successive, alla registrazione differenziata uomo-donna degli eventi avversi in ambito chemioterapico; in Lombardia, come ben descritto da Maria Antonietta Banchero, la medicina di genere è stata posta come obiettivo a tutti i direttori generali, che quindi saranno giudicati (già al termine dell’anno in corso) anche sulla base delle azioni e attività messe in atto; Roberta Mori, che ha invece specificato come in Emilia-Romagna la scelta sia quella di considerare la medicina di genere come parte dei valori costituzionali, si è soffermata sull’avvio della legge regionale quadro per il genere, che adeguerà sul territorio emiliano i diritti delle donne nei diversi campi, salute e professione compresi.
Proprio sul territorio, come è ben comprensibile, si gioca quindi una delle partite più importanti. E’ qui, ha sottolineato Valeria Messina (Simg), che si gioca la partita della formazione degli stessi medici di medicina generale. E’ qui, ha sintetizzato Annarita Frullini (coordinatrice dell’Osservatorio FNOM per la professione al feminile), che si svolgono già molteplici attività (a Messina un osservatorio avviato già nel 2006; in Puglia un tavolo tecnico creato dall’Ares, a Torino una serie di attività concertate tra i vari soggetti di assistenza sanitaria e professionali, in Toscana e Abruzzo molte attività formative; senza dimenticare la funzione importante dell’Associazione donne medico), che la FNOM ha registrato in una recente ricognizione a tutto campo.
Ma se sul piano territoriale molto è già in atto (anche se non abbastanza), su quello delle prospettive di politica sanitaria nazionale qualcosa di radicale deve accadere. Qualcosa che secondo Flavia Franconi potrebbe essere quel Piano nazionale di cui si rendeva conto già in apertura di questo report; qualcosa – ha sottolineato Amedeo Bianco – che deve però coinvolgere principi, norme e categorie della sperimentazione e quindi deve accadere a livello internazionale; qualcosa – è stata la chiusura di De Biasi – che deve necessariamente vedere la partecipazione attiva delle aziende farmaceutiche “che devono entrare in una fase di presa di coscienza definitiva dell’importanza di uscire dalle vecchie logiche per cui pensano di curare solo pazienti-uomini”. Osservazione finale che ha chiuso idealmente il cerchio con l’intervento iniziale di Monica Toraldo di Francia (comitato nazionale di bioetica), che aveva sottolineato l’importanza di trials genere-oriented, quale primo passo reale e fattivo verso un’autentica medicina personalizzata.
Autore: Redazione FNOMCeO