Gasparini: La violenza contro chi aiuta, quando il medico è il bersaglio

20 OTT – Gentile direttore,
fino a qualche decennio fa era in voga fra i medici esporre all’interno del parabrezza delle loro auto un dischetto di metallo con impresso il bastone di Esculapio, simbologia derivata dalla cura del parassita Dracunculus Medinensis ed universalmente riconosciuto come emblema della medicina. Quel dischetto ben adeso al parabrezza indicava che quell’auto apparteneva ad un medico.

Era un auto che trasportava una persona importante, utile alla comunità. Ora quasi nessuno lo espone più e chi lo fa quasi sempre lo inserisce in una bustina di plastica semiaperta in modo che sia facilmente rimovibile. Ho chiesto ad alcuni miei Colleghi il perché dell’assenza del simbolo sulle auto. Le risposte sono state per lo più vaghe. La più gettonata è: vedono che sono un medico e mi rompono la serratura della macchina in cerca del ricettario, di farmaci o di soldi, credono io sia ricco.

Evidentemente la nostra società è cambiata e fra le poche cose che possiamo prevedere per il futuro c’è quella che continuerà a cambiare, piaccia o no. Altra realtà è che noi medici siamo tali perché c’è qualcuno da curare, qualcuno che fa parte della società, qualcuno che con essa muta.

La cura delle malattie, il bisogno di essere assistiti, curati, consolati e guariti è un’esigenza forte, è un qualcosa che caratterizza in modo netto la nostra specie. Più di altre specie animali siamo riusciti a modificare l’ambiente in cui viviamo adattandolo a quello che pensiamo siano le nostre esigenze, le cose di cui pensiamo di avere necessità. Fra queste cose c’è il bisogno di mantenere il nostro stato di salute, il nostro benessere. Questo mantenimento può passare attraverso la cura della persona, il mutuo soccorso ma anche trasformarsi in una merce, diventando così per alcuni più facile da ottenere e, per altri (e non solo medici), remunerativo.

Nelle società primitive chi era preposto a curare se non guariva e determinava la morte del malato ne seguiva la sorte. Non credo che il curante fosse in questo caso un medico dotato di una costosa laurea ma piuttosto uno sciamano, ma credo che questa determinazione sociale abbia a che fare in qualche modo con i fenomeni dei nostri giorni. Quando il medico non è più un elemento prezioso per la società diventa sacrificabile. Quando si cerca di sconfiggere la violenza sugli operatori sanitari colpendo solo la violenza di cui sono vittime è come guardare il dito di uno che ci indica la luna.

All’interno della Fondazione Ars Medica e dell’OMCeOVe la violenza sui medici e sugli operatori sanitari è ritenuto un tema di capitale importanza e strettamente collegato alle vicende che caratterizzano la recente e non più negabile crisi del medico. Ornella Mancin (QS 3/9/19) e Marco Ballico (QS 24/9/19) hanno già riportato recentemente alcune riflessioni richiamando il lavoro di Ivan Cavicchi (in particolare QS 26/11/18) e dialogando a distanza con Liuva Capezzani (QS 10/9/19).

Ad oggi non si può dire certo che questo tema sia risolto né in via di risoluzione nonostante il coraggioso impegno della FNOMCeO. Si è deciso quindi di intraprendere una nuova serie di incontri assieme ai filosofi dell’Università di Cà Foscari tra cui Luigi Vero Tarca e Fabrizio Turoldo. Oltre all’analisi che origina ricca dalla riflessione filosofica vorremmo cercare anche di indicare delle soluzioni ai problemi.

Il fenomeno della violenza sui medici non è una novità assoluta. Recentemente però appare più frequente nelle cronache e in forma più grave. Probabilmente per qualcuno sta diventando un fenomeno sociale. Aggredire in gruppo gli operatori di un’ambulanza perché si crede abbiano impiegato troppo tempo per arrivare nel luogo del soccorso o perché stiano lavorando in modo insufficiente non è un gesto impulsivo di un singolo ma di un insieme di persone evidentemente spinte da qualcosa di diverso che la temporanea perdita del controllo.

La violenza non è rivolta verso la medicina, per nulla in crisi, sempre più tecnologica e tendente all’infallibilità, ma verso il medico che applica la medicina. Medico-uomo, soggetto fallibile per natura. Medico-uomo che vive ed opera in una società che esprime bisogni di salute in evoluzione, in parte diversi dal passato, sempre più sofisticati e sempre più legati ad una visione più globale della vita. Bisogni, supposti o reali, che cercano una soluzione completa non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico e sociale. Non a caso la violenza, specialmente quella fisica, esplode più frequentemente in ambienti come pronto soccorso, ambulatori convenzionati, reparti di degenza del SSN, guardia medica in cui l’azione del medico avviene più come mutua assistenza e con precisi limiti di offerta.

Possiamo provare a classificare la violenza sui medici almeno in sei tipologie-elementi diversi per modalità, origine ed espressione ma caratterizzati dalla prevaricazione violenta/letale di un essere, il medico, rifiutato nella sua essenza.

Un primo tipo di violenza (intrinseca alla professione) è antico e riguarda quei pazienti che hanno perso almeno in parte il contatto con i propri simili, alludo ad esempio ai pazienti psichiatrici, in questo caso la violenza fa parte del pesante lavoro dei sanitari e va limitata e curata con terapie e con la formazione del personale.

Un secondo tipo di violenza (emergenziale) scaturisce dalla sensazione di impotenza che pervade quei pazienti e quei famigliari che si aspettano dall’organizzazione sanitaria in senso lato e dal medico come sua condensazione, delle risposte ad un bisogno vissuto disperatamente. Risposte che hanno una collocazione nel tempo immediato e spesso sono legate a bisogni di salute reali. Risposte che non vengono date nel modo atteso per vari motivi (fra cui l’impossibilità di soluzione di una patologia) e generano un evento violento. Evento vissuto come diritto ed atto liberatorio. Questa violenza colpisce il medico come rappresentante della salute e come inefficace interprete di una medicina ritenuta infallibile. La soluzione di questa violenza potrebbe avvenire attraverso la creazione di un’adeguata relazione con il paziente. Relazione che ha bisogno di tempo e di formazione.

Una terza origine di violenza (economico-tecnologica) è di genesi più recente, è legata al cambiamento della società ma anche al benessere economico dei suoi cittadini, mai così alto nella storia dell’umanità. Riguarda chi è forte e pretende perché è informato. “Sa” come l’atto medico deve svolgersi e che risultato certo deve dare. Un uomo nuovo che si nutre di informazioni, autodeterminato, tecnologico ed infallibile. Un uomo pronto a colpire (legalmente o illegalmente) se non considera adeguata la risposta sanitaria o se si sente leso. La soluzione di questa violenza potrebbe essere il riportare il tutto alle possibilità reali ponendo il medico, attento alle dinamiche sociali, nel suo ruolo più naturale di mediatore fra salute e malattia. Questo non è facile nella situazione sociale di oggi e i medici trovano più conveniente cercare di difendersi in qualche modo, ad esempio con la medicina difensiva.

Un quarto elemento (socio-amministrativo) che può essere vissuto come violenza è compiuto da chi attraverso le proprie convenienze e il proprio ruolo sociale, ideologico, amministrativo e finanziario ridimensiona il medico e cerca di limitare la sua autonomia lasciando immutata la sua responsabilità ed inquadrando al massimo le sue funzioni. Una violenza sottile che colpisce spesso i professionisti dopo averli divisi e contrapposti. Riducendo l’autonomia del medico si riduce la sua autorevolezza e si rende più difficile il suo lavoro. La soluzione può avvenire solo con un patto fra medici e cittadini.

Un quinto elemento che suscita violenza sui medici deriva dai medici stessi (iatrogena). La pressione a cui i medici sono sottoposti nella loro attività lavorativa è elevata. Le responsabilità che accompagnano la normale attività professionale sono molteplici e a volte assai pesanti. Il riconoscimento per la difficile, rischiosa ed impegnativa attività svolta è normalmente modesto, se non assente, o liquidato con un inadeguato corrispettivo in denaro. I medici cercano quindi di migliorare la propria situazione perché in un contesto del genere le difficoltà non mancano e così per provare a superarle o per rendersi più importanti agli occhi del paziente comunicano perplessità per il lavoro svolto da altri colleghi o per il livello di una certa struttura generando in chi ascolta un senso di smarrimento e di risentimento. Sottolineo che questo senso di smarrimento viene suscitato in chi ci affida il suo bene più elevato, la salute, la vita. Necessitano una riflessione interna alla professione ed una più puntuale applicazione del codice deontologico.

Un sesto tipo di violenza (organizzativa) deriva dall’esposizione dei medici a condizioni di lavoro pericolose. Riguarda uomini e donne che hanno scelto di essere medici, di aiutare gli altri, ma sono stati socialmente ridimensionati, abbandonati in luoghi inadeguati, messi nelle condizioni di sbagliare di più e trasformati in facili prede per chi è da sempre a caccia. I nostri pronto soccorso a volte assomigliano a gironi danteschi in cui la vita scorre come in una continua catastrofe, questa realtà fino a qualche anno fa la vedevamo solo nei film americani, profezia? Chi lavora nell’emergenza-urgenza svolge spesso un’attività snaturata per l’accoglienza prevalentemente di pazienti con richieste non urgenti. Pazienti che per l’elevato numero sono suddivisi per gravità dal triage, come in tempo di guerra. Reparti in cui di notte pochi medici ed infermieri devono assistere un numero crescente di pazienti sempre più gravi e allo stesso tempo badare a un numero sempre maggiore di incombenze burocratiche ed amministrative. Servizi in cui lo scarso personale di guardia nelle ore notturne dedicate all’urgenza nella solitudine di enormi spazi si barrica temendo il peggio. Ambulatori in cui i medici si sentono trasformati in propaggini burocratiche e contrattano terapie o prestazioni sanitarie con chi richiede non un atto medico ma un foglio di carta e la possibilità di pagare meno. In questi luoghi la domanda non è se esploderà la violenza ma quando esploderà. Sono solo scelte dettate dalla necessità di economizzare? Credo sia necessario cambiare prospettiva.

Dalla sconvolgente realtà dei fatti di cronaca è emersa l’esigenza di proteggere gli operatori sanitari. L’idea di richiuderli in bunker dotarli di fischietti o insegnarli le arti marziali sono soluzioni istintive, primitive. Pongono chi le produce sullo stesso piano del violento, non vanno alla radice del problema e contribuiscono a generare un clima apocalittico. Anche prevedere aspre pene per punire l’atto violento se considerate l’unica via di soluzione rischiano di lasciare inalterato lo status quo e creare ulteriori vittime come chi disperato non trova altro modo di esprimersi.

Durante i mercoledì filosofici si cercherà di utilizzare quella miniera di idee che sono le 100 tesi di Ivan Cavicchi e la grande occasione prodotta dalla FNOMCeO con gli Stati Generali della professione medica. Si inizierà il 30 ottobre con il tema “Il cambiamento della società come generatore di violenza”. Seguiranno il 20 novembre “La formazione dei medici rispetto ad un fenomeno ad oggi quasi sconosciuto” e l’11 dicembre “Una proposta per una soluzione diversa ovvero le fondamenta di un nuovo patto (deontologico) con il Paziente”.
Per informazioni segreteria@ordinemedicivenezia.it

Gabriele Gasparini
Neuroradiologo
Vicepresidente Fondazione Ars Medica OMCeOVE

 

Pubblicato su Quotidiano Sanità

Autore: Redazione

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