La fondazione GIMBE analizza le richieste avanzate dalle Regioni e lancia una consultazione pubblica per valutare il potenziale impatto delle maggiori autonomie sulla tutela della salute, perché senza un vero dibattito sul regionalismo differenziato si rischia una silenziosa disgregazione dello Stato sociale. Per fronteggiare gli effetti su una sanità già flagellata da inaccettabili diseguaglianze, GIMBE ritiene indispensabile potenziare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni.
6 febbraio 2019 – Fondazione GIMBE, Bologna
Il prossimo 15 febbraio i Presidenti di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto incontreranno il Premier Conte per riprendere la discussione sul regionalismo differenziato, in attuazione dell’art. 116 della Costituzione che attribuisce alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sulla base di un’intesa tra lo Stato e le Regioni a statuto ordinario che ne facciano richiesta. Stabilita l’intesa, il Governo formulerà il DDL che dovrà essere quindi approvato dalle Camere con maggioranza assoluta.
«Dopo che le 3 Regioni – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – avevano sottoscritto al fotofinish gli accordi preliminari sul regionalismo differenziato con il Governo Gentiloni, il Contratto per il Governo del Cambiamento ha ribadito come «questione prioritaria […] l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116 della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte». Nel frattempo, altre 7 Regioni (Campania, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria) hanno conferito ai Presidenti il mandato di avviare il negoziato; Basilicata, Calabria e Puglia sono alla fase iniziale dell’iter, mentre Abruzzo e Molise non risultano aver avviato iniziative formali.
In un quadro di maggiori autonomie la cartina al tornasole è rappresentata dalla sanità dove già oggi, precisa Cartabellotta, «il diritto costituzionale alla tutela della salute, affidato ad una leale collaborazione tra Stato e Regioni, è condizionato da 21 sistemi sanitari che generano diseguaglianze sia nell’offerta di servizi e prestazioni sanitarie, sia soprattutto negli esiti di salute». In questo contesto, l’attuazione tout court dell’art. 116 non potrà che amplificare le diseguaglianze di un servizio sanitario nazionale, oggi universalistico ed equo solo sulla carta. In altre parole, puntualizza il Presidente, «senza un contestuale potenziamento delle capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, il regionalismo differenziato finirà per legittimare normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini».
Infatti, le maggiori autonomie richieste dalle 3 Regioni sulla tutela della salute lasciano intravedere conseguenze non sempre prevedibili: dalla rimozione dei vincoli di spesa in materia di personale all’accesso alle scuole di specializzazione; dalla stipula di contratti a tempo determinato di “specializzazione lavoro” per i medici agli accordi con le Università; dallo svolgimento delle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione al sistema di governance delle aziende e degli enti del SSR; dalla richiesta all’AIFA di valutazioni tecnico-scientifiche sull’equivalenza terapeutica tra diversi farmaci agli interventi sul patrimonio edilizio e tecnologico del SSR, sino all’autonomia in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi. Ulteriori autonomie per Emilia Romagna (distribuzione diretta di farmaci) e Veneto che punta alla gestione del personale: regolamentazione dell’attività libero-professionale e definizione di incentivi e misure di sostegno per i dipendenti del SSR in sede di contrattazione collettiva.
«Le posizioni delle varie forze politiche – incalza Cartabellotta – oscillano, come un pendolo schizofrenico, dal potenziamento del centralismo al regionalismo differenziato in ragione di opportunismi, alleanze e compromessi politici, senza ponderare i rischi per la coesione nazionale e sociale, né soprattutto le conseguenze sui diritti costituzionali, visto che con le maggiori autonomie nascere e vivere al Sud significherà avere meno diritti di chi risiede nelle Regioni più ricche: dalla sanità al welfare, dalla scuola all’Università». Davanti a questo potenziale attentato allo Stato sociale, un’insolita congiunzione astrale ha allineato tutte le forze politiche, senza alimentare alcun dibattito sui rischi del regionalismo differenziato e sulla contestuale necessità di potenziare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, per evitare che l’attuazione dell’art. 116 si trasformi in elemento di disgregazione del Paese. In particolare:
- Il Premier Conte, in qualità di arbitro ufficiale, si limita a parlare per ossimori affermando che il Governo “lavora seriamente sull’autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna”, ma deve “salvaguardare la coesione nazionale e sociale”.
- Le ultradecennali spinte secessioniste della Lega, silenziosamente avallate da Forza Italia, non solo hanno trovato con l’art. 116 il cavallo di Troia per disgregare l’unità del Paese, ma provano ad andare oltre, visto che i referendum di Veneto e Lombardia hanno proposto quesiti incostituzionali, tra cui trattenere l’80% del gettito fiscale, rilanciando il secessionismo 1.0 di Umberto Bossi.
- La Ministra per il Sud, Barbara Lezzi (MS5) – garante politico di chi avrebbe la peggio dal regionalismo differenziato – ha rivendicato il ruolo attivo del M5S sulle autonomie, affermando la necessità di un confronto tra la Ministra Stefani (Lega), coordinatrice del negoziato, e i Ministri della Salute, dell’Ambiente e dei Trasporti (tutti in quota MS5). Nel frattempo però la Ministra Grillo aveva già aperto al regionalismo differenziato contraddicendo la dichiarazione d’intenti con cui si apre il capitolo Sanità del Contratto per il Governo del Cambiamento: “È prioritario […] tutelare il principio universalistico su cui si fonda la legge n. 833 del 1978 istitutiva del SSN. Tutelare il SSN significa […] garantire equità nell’accesso alle cure e uniformità dei livelli essenziali di assistenza”.
- Il Partito Democratico, sebbene all’opposizione, di fatto è allineato con gli obiettivi di Governo perché l’Emilia Romagna è sulla stessa barca di Lombardia e Veneto, seppur con richieste più orientate alla qualità dei servizi ed efficienza amministrativa, piuttosto che all’identità regionale.
Risuonano così inascoltate le parole del Presidente Mattarella nel discorso di fine anno: «L’universalità e la effettiva realizzazione dei diritti di cittadinanza sono state grandi conquiste della Repubblica: il nostro Stato sociale, basato sui pilastri costituzionali della tutela della salute, della previdenza, dell’assistenza, della scuola rappresenta un modello positivo. Da tutelare».
«Considerato che sono in gioco i diritti civili delle persone – conclude Cartabellotta – è inaccettabile per un Paese democratico l’assenza di un dibattito politico e civile sul tema. Ecco perché la Fondazione GIMBE ha elaborato una sintesi delle autonomie richieste dalle Regioni in sanità e invita tutti gli stakeholder (cittadini inclusi) a partecipare alla consultazione pubblica per far luce sui potenziali rischi del regionalismo differenziato sulla tutela della salute».
La consultazione pubblica è disponibile sino al 15 febbraio 2019, all’indirizzo: www.gimbe.org/regionalismo-differenziato.
Autore: Redazione