Un volume a firma di Gianna Pamich, uscito di recente per i tipi della nota Casa editrice medico scientifica EDRA, ha attratto l’attenzione dei medici, oltrechè dei malati ai quali parimenti il volume si rivolge. Non tanto per il titolo “Effetto bianco” che fa pensare all’azione miracolosa di un detersivo, ma per il sottotitolo che recita: “Il ruolo del camice nel rapporto medico paziente”.
E’ stata probabilmente quella frase a richiamare all’Expodental Meeting a Rimini una buona dose di camici bianchi (tra cui anche qualche nome illustre) per la presentazione ufficiale del volume. Interpretando il pensiero dei medici presenti, si potrebbe infatti dedurre che ad attirarli sia stato proprio quel sottotitolo, espressione indiretta di un interrogativo che fa riflettere.
Come si può pensare infatti che un capo di vestiario professionale come il camice (al quale notoriamente il medico non dà importanza più di tanto) possa svolgere un “ruolo” in un rapporto così ravvicinato, delicato come quello tra lui e il paziente?
Ci soffermeremo tra poco sui contenuti più o meno nascosti di tale ruolo dal punto di vista medico. Ma si può affermare sin da subito che “anche” il paziente dovrebbe riflettere. Se non altro per il ben noto fenomeno della “white coat hypertension” la sindrome da camice bianco, secondo cui “la misurazione dei valori pressori da parte del sanitario in camice ne provoca l’aumento, mentre sembra escluso – puntualizza il libro – se la rilevazione ha luogo in un clima più familiare, meno bianco sanitario, per così dire”.
L’hypertension comunque sarebbe solo uno dei vari sentimenti sottesi dall’incontro medico paziente, assimilabile, secondo una curiosa analogia storica, a quel che avvenne nel primo ‘800 con l’introduzione dello stetoscopio. Secondo uno studio compiuto da Antonio Spagnolo e Simona Giardina e richiamato nel volume, “quel dispositivo venne accolto all’inizio come un corpo estraneo nelle visite di allora, consistenti nell’auscultazione del torace ad orecchio. Costituì un allontanamento tra medico e paziente, non solo fisico, ma anche antropologico, ossia dal malato alla malattia. Concetto arduo, allora, da accettare, ma oggi più che mai scontato.”
Tornando quindi al ruolo del camice dal punto di vista medico, nel definirlo come “indumento dalla forte carica simbolica” la psicoterapeuta puntualizza che come tutte le divise (e in genere gli abiti formali) anch’esso diventa innanzitutto “simbolo ufficiale del sapere e del saper fare”, dato l’effetto importante che camici e divise in genere hanno sui comportamenti delle persone.
Il termine “simbolo” compare però anche in una seconda, diffusa, definizione, più nota e pacificamente riconosciuta, del camice come “status symbol”. Così come è opinione pacificamente condivisa che il bianco indumento costituisca (terza definizione) una sorta di diaframma nel rapporto medico/paziente. Se il libro si sofferma soprattutto su questi tre modi di essere, ci tiene anche a sottolineare le “eccezioni di ruolo” a dimostrare che non si tratta affatto di una tripartizione rigida.
Non si spiegherebbe altrimenti come il Dr, House, infallibile diagnosta televisivo, non lo indossa mai: non per vezzo, si capisce, ma per un incontro “più ravvicinato” col paziente. E come (quasi mai) lo indossano gli psichiatri e alcuni medici di famiglia, sulla scia del mai dimenticato medico condotto, troppo legato al paziente e alla sua famiglia per indossare un “diaframma”.
Se il medico lo deve proprio indossare, quale segno ufficiale del sapere e del saper fare, può tuttavia cercare di attenuarne la “carica diaframmatica” quasi a far dimenticare che esista. E’quel che si verifica coi seguaci del dottor Patch Adams che il camice lo indossano, ma ne minimizzano l’impatto, vestendosi da clowns.
Massimo Boccaletti
Autore: Redazione