Il Web? Non soltanto una fabbrica di fake news

di Redazione

“Ero depressa. Ora posso dirlo perché per fortuna non lo sono più. Ma non avrei potuto dichiarare la mia depressione quando per dieci mesi ho sofferto di questa patologia, soprattutto perché mi vergognavo”.

Inizia così la confessione di Molly England, una mamma che partecipa attivamente ai dibattiti in un gruppo di discussione “on line” sulla genitorialità attivato dal Washington Post, il quotidiano statunitense che ha saputo dare lustro al giornalismo per la sua capacità di essere sempre al servizio dei suoi lettori. Un giornale come questo, pur mettendo a disposizione uno spazio per il confronto tra lettori su un argomento “difficile” come la depressione, non potrebbe mai venire meno ai suoi compiti d’informazione. Nemmeno quando la patologia (come accade in questo link) è raccontata senza veli da una madre che ha dei figli piccoli da accudire.

Nella testimonianza vi è infatti anche spazio per una importante notazione sanitaria corredata da due interessanti, documentati link interni di approfondimento. “Nel 2016 –si informano i lettori- quasi il 7% della popolazione (negli USA, ndr) ha avuto almeno un episodio depressivo maggiore. Eppure lo stigma e la discriminazione che grava sui disturbi mentali, inclusa la depressione, è ancora forte. Secondo i risultati del 2017 di Mental Health America, il 56% degli adulti americani con una malattia mentale non ricevono cure”.

Ma è proprio l’analisi della depressione, come manifestazione patologica devastante fatta con grande lucidità in prima persona da questa ex malata, la testimonianza importante. Nulla sembra mancare in questo racconto ad iniziare dalla paura che i riflessi di una patologia psichiatrica potenzialmente distruttiva possano ripercuotersi sui tre piccoli figli, per proseguire con il racconto crudo di un sempre più accentuato isolamento che ben presto impedisce di soddisfare (se non al prezzo di indicibili sacrifici personali) le più basilari cure parentali: il nutrimento e la pulizia personale dei bambini.

La molla dell’isolamento, come spesso accade in questi malati quando sono impegnati nella cura indifferibile di figli molto piccoli, è l’implacabile occhio sociale che giudica senza pietà. “Pensavo: se non posso badare a me stessa –confessa Molly England – la gente si chiederà come possa prendermi cura dei miei tre figli, di 7, 5 e 4 anni. Il giudizio degli estranei mi spaventava nel silenzio di quelle ore buie perché temevo che facesse precipitare nel ridicolo la mia famiglia e che i miei figli venissero etichettati come figli di una mamma depressa”. Questa coraggiosa ammissione è l’inizio di una definizione della depressione, personale ed efficace. “La depressione sconvolge il modo in cui affronti la vita giorno per giorno. Io sono aumentata di peso perché non mi muovevo più, afflitta come da una specie di letargia. Mentre prima correvo sempre, dopo non sono più riuscita nemmeno ad accompagnare i miei bambini a scuola perché ero incapace di concentrarmi per svolgere un qualsiasi compito”. Una sorta di letargia che isola, provoca il pianto, fa rinunciare ad un qualsiasi aiuto perché l’abisso in cui si è precipitati si crede impossibile da scalare e l’eventuale aiuto fornito da altri viene considerato un favore assolutamente non restituibile e quindi da rifiutare ad ogni costo.

Descritta la patologia si dà conto della guarigione ottenuta grazie al supporto medico specialistico che, come primo obiettivo immediato, ha avuto quello di impedire l’abbandono dei doveri imposti dalla condizione di genitore: un risultato in cui non poco ha giocato l’acquisizione del coraggio di comunicare agli altri la propria sofferenza, senza giri di parole. Nella testimonianza si afferma in modo sufficientemente chiaro che comunicare è l’unica forma davvero efficace di autocura, quando è parte integrante di un programma terapeutico articolato e condiviso.

Che la guarigione della signora England sia una vera guarigione (e non una semplice remissione dei sintomi) lo si può abbastanza bene dedurre dalle parole con cui Molly descrive la sua condizione di vita attuale.

“Scambio i numeri di telefono con ogni nuova mamma dall’aria amichevole che incontro. Frequento gli eventi scolastici, faccio volontariato, aiuto in classe. C’è una signora anziana nel nostro nuovo quartiere che porta a passeggio il suo cane almeno due volte al giorno. L’ho conosciuta e farò in modo di restare in contatto con lei. Tutto questo mi impedirà di lasciare che la mia depressione mi avvolga di nuovo senza possibilità di cercare aiuto.

Ma se la depressione ritornasse? Troverò subito un altro terapeuta e cercherò una guida professionale che mi aiuti a guarire piuttosto che ingannarmi di nuovo e inutilmente soffrire”.

Che uno spazio di confronto e discussione sulla genitorialità, attivato sulla Rete da un prestigioso quotidiano, affronti anche in questo modo il problema “difficile” della depressione, soprattutto quando affligge una madre o un padre, testimonia la quantità e l’intensità dei luoghi comuni di cui siamo vittime nel parlare di comunicazione. I giornali possono magari anche non essere afflitti da quell’aura di inutilità di cui spesso li si ammanta e la Rete può anche non essere quello sfogatoio per cialtroni di cui ultimamente si parla spesso.

Da queste due consapevolezze origina forse la ragione dell’articolata firma del pezzo pubblicato dal Post on line: “Molly England tenta continuamente di semplificare la sua vita. Aspira ad essere una madre, una moglie, una figlia e un’amica decente. Nel frattempo, elabora il caos quotidiano e annota i suoi pensieri sulla bellezza della vita che possono essere letti su The Washington Post, HuffPost, Scary Mommy, Salon, Babble e altri”.

 

Autore: Redazione

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