Intervista al Dottor Stefano Vicentini, volontario di Medici con l’Africa CUAMM

Il Centro Studi FNOMCeO prosegue il ciclo di interviste
sull’impegno dei medici italiani a favore dei più bisognosi. Questa
volta a raccontare la sua esperienza è il Dottor Stefano Vicentini, volontario di Medici con l’Africa CUAMM.
Nata nel 1950, Medici con l’Africa CUAMM è la prima ong in campo
sanitario riconosciuta in Italia e la più grande organizzazione del nostro Paese per la promozione e
la tutela della salute delle popolazioni africane. Realizza progetti a
lungo termine in un’ottica di sviluppo, intervenendo con questo
approccio anche in situazioni di emergenza, per garantire servizi di
qualità accessibili a tutti. A tale scopo si impegna nella formazione, in Italia e in Africa, delle
risorse umane dedicate, nella ricerca e divulgazione scientifica in
ambito tecnico di cooperazione sanitaria, nell’affermazione del diritto
umano fondamentale alla salute per tutti, anche dei gruppi più
marginali, diffondendo nelle istituzioni e nell’opinione pubblica i
valori della solidarietà e della cooperazione tra i popoli, della
giustizia e della pace.

Dottor Vicentini, quante missioni avete compiuto nel nome di CUAMM e quanti medici italiani avete coinvolto?

«In cinquantanove anni di storia, 1.252 sono le persone inviate nei progetti: di queste 367 sono i
ripartiti una o più volte. Il totale complessivo degli invii è stato,
quindi, di 1.908. Ci sono poi altri altri numeri da considerare: sono stati effettuati 3.725 anni di servizio, con una media di 3 anni per ciascuna persona inviata. Per quanto riguarda il Veneto in particolare, sono 279 i medici partiti da questa regione in quasi 60 anni.
Il nostro impegno ha riguardato 192 ospedali e 38 Paesi diversi, con 150 programmi principali, realizzati in collaborazione con il Ministero degli Esteri e varie agenzie internazionali. Attualmente siamo presenti in Angola, Etiopia, Kenya, Mozambico, Sud Sudan, Tanzania e Uganda con 92 operatori, 61 medici, 15 paramedici, 16 tecnici e amministrativi. In questi Paesi, sono attivi 56 progetti di cooperazione principali e un centinaio di micro-realizzazioni di supporto, con i quali appoggiamo 15 ospedali, 25 distretti (per attività di sanità pubblica, assistenza
materno-infantile, lotta all’Aids, tubercolosi e malaria, formazione), 3 centri di riabilitazione motoria, 4 scuole infermieri e 3 università, in Uganda, Mozambico ed Etiopia».

Quali gli specialisti più interessati dai progetti di Medici con l’Africa CUAMM?

«L’alta
professionalità richiesta a chi opera nei progetti deve coniugarsi con caratteristiche personali
quali lo spirito di volontariato e di servizio e la condivisione dei
valori di solidarietà e di gratuità che stanno alla base dell’agire
dell’organizzazione. Gli interlocutori locali chiedono
professionisti preparati, con competenze sempre più affinate. Per
questo agli operatori inseriti nei progetti di Medici con l’Africa
Cuamm è richiesta una radicata motivazione e un’approfondita formazione
teorico-pratica.
Nella realizzazione dei progetti, la nostra organizzazione si avvale strettamente della collaborazione
del personale locale. Per gli operatori “espatriati”, la figura
professionale più richiesta è quella del medico. Ci si avvale
in particolare di specialisti in Chirurgia, Ginecologia e Ostetricia,
Igiene e Sanità Pubblica, Malattie Infettive, Medicina Interna e
Pediatria. Esiste inoltre un’apposita iniziativa per gli specializzandi,  il "Junior Project Officer", che prevede lo svolgimento di un
periodo di Specialità all’interno di un progetto di Medici con l’Africa
Cuamm.
Di
norma gli operatori espatriati sono inseriti nei progetti per un
periodo di uno-due anni e sono inquadrati generalmente con un contratto
di volontariato internazionale – regolato dalla legge 49 del 1987 – che
dà diritto all’aspettativa da un posto di lavoro pubblico e prevede un
salario mensile sufficiente per vivere nei paesi in cui si va ad
operare».

Come riesce a conciliare la professione, la vita privata e la sua intensa attività di volontariato?

«Conciliare lavoro, vita privata e attività di volontariato non è
impresa facile e può riuscire solo a patto di sottrarre parte del 
tempo libero alla famiglia, per questo è molto importante che il
partner condivida lo scopo e l’impegno che richiede».

Cosa pensano di voi i medici locali?

«Tendenzialmente, in un contesto rurale, in cui le risorse umane
sanitarie sono estremamente rare, i medici stranieri, anche se alla
prima esperienza d’Africa, sono bene accetti. Riguardo alla relazione
con i medici locali, ci sono due correnti di pensiero: da un lato c’è
chi preferirebbe ricevere direttamente le risorse finanziare (e non i
medici stranieri!) con cui pagare gli stipendi dei medici locali;
dall’altro c’è chi, più consapevole della situazione sanitaria del
Paese in cui vive, si rende conto che in determinati contesti, anche medici alla
prima esperienza, con poca conoscenza di medicina tropicale, sono
utili. Gli specialisti, in particolare con abilità chirurgiche, sono tendenzialmente benvenuti in ogni
contesto. Un’altra categoria “ben accetta” è il medico esperto in
gestione ospedaliera. La formazione del personale locale è ottima per
le abilità manuali per cui quasi sempre, usciti dal corso di laurea, i
giovani medici sono in grado di  affrontare le principali problematiche
di natura chirurgica, in un ambiente pur sempre povero di risorse come
un ospedale rurale. Ovviamente la loro formazione è molto carente per
quanto riguarda l’aspetto organizzativo-gestionale, che va
dell’epidemiologia alla gestione delle risorse umane e finanziarie.
Un’altra categoria apprezzata è il volontario che si occupa di gestione
ospedaliera perché il personale locale si rende conto della propria
debolezza su questo versante».

Quali i maggiori problemi incontrati dal punto di vista tecnologico, operativo e ambientale?

«Non c’è una risposta univoca, molto dipende dal contesto in cui si va a
lavorare. Personalmente, ho operato in due contesti
all’interno dello stesso paese che, tuttavia, sembravano appartenere a
due mondi differenti. Ciò che li accomuna è comunque la scarsità di
risorse finanziare ma soprattutto di risorse umane qualificate. Ci si
trova costretti, quindi, a darsi da fare con i pochi soldi a
disposizione e con il personale spesso poco qualificato e non
particolarmente motivato per una serie di ragioni. Dal punto di vista
tecnologico, le tecnologie disponibili sono minime: macchine per
radiografie semplici, ecografi per fare ecografie di primo livello… Dal
punto vista operativo, ci si scontra con dei grossi problemi legati a
un sistema sanitario che ha una struttura molto diversa da quelli
occidentali, con ritmi completamente differenti e difficili da
accettare per noi, con difficoltà ambientali legate al clima. Altre difficoltà sono legate ad una situazione
logistica difficile: l’ energia elettrica non è sempre erogata con
continuità nell’arco delle 24 ore, l’acqua spesso va acquistata perché
non esiste l’acquedotto, la stessa sicurezza in certi casi è messa a
rischio per cui diventa necessario assumere come dipendenti dei
guardiani…».

Insegnate a “pescare” o  date soltanto  il “pesce” necessario?

«Nella filosofia di Medici con l’Africa Cuamm da sempre l’imperativo è
lavorare insieme con gli operatori sanitari africani. Insegniamo a
pescare ma non ci sostituiamo a loro, non andiamo in Africa per fare
quello che dovrebbero fare i colleghi africani ma lavoriamo con loro,
per fare insieme».

Quali le rinunzie più pesanti?

«La rinuncia più pesante è quella che riguarda la carriera professionale, ad un
posto in ospedale che non ho potuto avere e per cui ho fatto altri tipi
di scelte. Altre rinunce minori sono legate all’impossibilità di
usufruire delle “facilità”  del nostro mondo occidentale. Ma sono niente
rispetto al genere di soddisfazione che un tipo di esperienza come
questa ti dà».

Quali le cose sulle quali bisogna ancora, e con maggiore urgenza, intervenire?

«Una priorità di intervento per i Paesi africani che conosco è quella di
rafforzare il sistema sanitario in generale. Non solo intervenire per
controllare malaria, Aids, Tb o tutelare la salute materno-infantile. Bisogna intervenire trasversalmente sul sistema sanitario nazionale in
maniera da rafforzarlo. Quelli africani, sono sistemi sanitari per lo
più giovani, alcuni hanno solo pochi decenni di vita, estremamente
fragili perché sotto-finanziati, con poche risorse umane qualificate in
grado di farli funzionare. E’ come se fossimo di fronte a un bambino con
pochi anni di vita che deve crescere e che rischia di crescere storto o
malformato perché gli manca la vitamina D o la luce del sole. È
necessario quindi intervenire sia con risorse finanziare sia con
risorse tecniche allo scopo di rinforzare il sistema sanitario
trasversalmente, a tutti i livelli: famiglie e salute comunitaria,
unità periferiche, ospedale finanche a livello di politiche sanitarie
ministeriali».

Qualche rammarico o nostalgia?

«Non ho nessun rammarico, sono contento delle scelte fatte. Il fatto che
continui a dedicare il tempo che mi permette l’esercizio della mia
professione lo conferma. Provo un po’ di
nostalgia per non esser potuto rimanere più a lungo a causa della
scadenza della mia aspettativa…».

Alcuni episodi o aneddoti più ricchi di significato?

«Una storia che ricordo con emozione è quella di cui è protagonista
Janet Sanga, in un piccolo villaggio che dista sei chilometri dal
centro di Makete, in Uganda. A 28 anni, Janet era rimasta vedova con un bambino.
Suo marito, malato di Aids, morì nel 2004. Purtroppo in quel
periodo a Makete non c’erano ancora i farmaci antiretrovirali, così fu
costretto a sofferenze molto forti che lo portarono a spegnersi
lentamente, senza il sostegno di altri famigliari che non fossero lei.
Dopo la sua morte, però, Janet fu cacciata di casa dai suoi
fratelli che la ritenevano responsabile e le fu tolto
anche suo figlio. I genitori di Janet erano morti, così lei ottenne ospitalità da una zia e cominciò la
sua battaglia presso le autorità per affermare i suoi diritti. Per
fortuna trovò comprensione e sostegno e riuscì a tornare a vivere nella
casa dove viveva con suo marito. Non poteva però vedere suo figlio.
Ad un certo punto,
però, Janet cominciò a sentirsi spesso male. Aveva la febbre, tossiva e si
sentiva debole. Andò in un centro e fece il
test per l’Aids: fu trovata positiva. Al contrario di suo marito, fu comunque fortunata, perché poté iniziare la cura con i farmaci
antiretrovirali. Gradualmente cominciò a sentirsi bene e dopo sei mesi
di trattamento tornò alla sua vita normale. Nel frattempo aveva
trovato l’amore di un uomo, anche lui sieropositivo e in trattamento
antiretrovirale come lei.
Quando rimase incinta per la seconda volta, si recò subito al
centro di salute perché era molto preoccupata che il bambino potesse
nascere sieropositivo. Gli operatori del centro le dissero che poteva
ricevere il trattamento di prevenzione della trasmissione del virus
dell’Aids da madre a figlio. Così si sottopose alle cure e dopo nove
mesi nacque Ebiko, un bambino sanissimo di quasi tre chili. Purtroppo
Janet non poteva allattarlo al seno e soffriva molto
nel sentire il suo pianto la notte perché aveva fame, ma sapeva che il
proprio nutrimento poteva essere per lui veleno. Tuttavia, grazie
all’aiuto di una zia, è riuscita a crescere Ebiko, che ora ha due anni
ed è un bambino sano, risultato negativo al test dell’Aids».

Quale, in conclusione, il bilancio di questa meritoria e, crediamo, gratificante esperienza?

«Il bilancio è senz’altro positivo. Il fatto di lavorare ancora per
Medici con l’Africa Cuamm lo conferma e il desiderio di ripartire è una
speranza che rimane. Ciò che ho ricevuto dalla mia esperienza in Africa
è molto più di quello che ho dato. A volte provo un po’ di rammarico
per non esser stato sufficientemente preparato, per non esser riuscito
ad affrontare determinate situazioni nel migliore dei modi quando non
avevo strumenti ed esperienza per affrontarle nel migliore dei modi.
D’altra parte, se si aspetta di esser preparati alla perfezione o che
arrivi il momento giusto per far la cosa giusta si rischia di non
partire mai. Il mio appello è di mettersi in gioco, soprattutto i più
giovani, e di correre il rischio di un rallentamento nello sviluppo
della propria carriera professionale o un minor guadagno, ma
indubbiamente l’arricchimento dal punto di vista umano è
incomparabilmente superiore a qualsiasi sacrificio richiesto».

Autore: Redazione FNOMCeO

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