Intervista a Piero Abbruzzese, cardiochirurgo e autore di “Cuore di figlio”

di Viviana Monastero (associazione OI-Kos)

“Cuore di figlio” è la storia di Carlo, che lotta con la malattia al cuore fin dalla nascita, quando viene adottato da una coppia di medici: Piero Abbruzzese, cardiochirurgo infantile, e la moglie, rianimatrice. Sembra che sia destinato a non superare i primi mesi di vita e invece non si arrende: operazione dopo operazione, Carlo affronta la sua sofferenza con leggerezza e ironia, godendo di ogni piccolo attimo e riservando le sue energie per aiutare gli altri. Muore nove anni fa, a vent’anni. La sua storia – che l’autore considera l’esperienza più importante della sua vita – è un inno alla vita.

Al centro del suo libro “Cuore di figlio” ci sono il suo progetto dell’ospedale pediatrico ad Hargeisa, in Somaliland, e soprattutto Carlo. Quali sono le lezioni di vita che le ha trasmesso suo figlio?

Carlo ci ha insegnato molto, ha fatto per noi più di quanto noi abbiamo fatto per lui. Aveva un modo di approcciarsi alla vita del tutto diverso dal nostro: non dava nulla per scontato e, anche se soffriva, gli bastava poco per sorridere o farci sorridere: era capace di mettere da parte la sua malattia per aiutare gli altri.

Nel libro scrive: “Curare il cuore dei bambini è il mio mestiere, ma sono i figli degli altri”. Lei è un cardiochirurgo pediatrico e nella sua esperienza di padre si è trovato più volte a dover gestire la malattia di suo figlio, malato al cuore, “dall’altra parte della barricata”, per citare le sue parole. Come è riuscito a conciliare le due esigenze, essere genitore e medico?

L’ho gestita malissimo, perché volevo sempre dire la mia. E per mio figlio è stata una tragedia. Avevo promesso a me stesso che non l’avrei mai operato, ma una volta, a causa di un’emergenza, sono dovuto entrare in sala operatoria. Carlo era appena stato operato da un chirurgo inglese, Magdi Yacoub, al Regina Margherita di Torino. Sembrava che tutto fosse andato per il meglio, e invece perdeva molto sangue. Il medico che l’aveva operato era già partito per un’altra urgenza, i miei assistenti non se la sentivano di operare “il figlio del capo” e allora non ho avuto scelta. Per fortuna è andata bene: durante la preparazione per entrare in sala operatoria è scattato dentro di me quel meccanismo per cui ti allontani mentalmente dalla persona e ti focalizzi sul lavoro.

Dal libro emerge come Carlo tenesse al progetto in Somaliland, tanto da convincerlo a portarlo avanti anche in seguito alla scomparsa del suo ideatore, il medico somalo Mohamed Aden Sheik. Come si fa a “dimenticare” la propria malattia per aiutare gli altri?

Carlo mi ha sostenuto molto nel progetto in Somaliland, ma in generale anche nelle altre iniziative di solidarietà, fra cui quelle promosse dalla Fondazione Forma, che destina i suoi fondi alla crescita dell’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino. Come ci riusciva? Quello era il suo modo di essere. Probabilmente, quando si soffre si riesce anche a sentire la sofferenza di chi sta peggio di te: si diventa più sensibili, empatici, partecipi. Si impara che nella vita ci sono anche gli altri.

In alcune sue interviste ha parlato dell’importanza di “bambinizzare” gli ospedali. Che cosa intendeva?

“Bambinizzare” – che è uno degli obiettivi che si propone la Fondazione Forma – significa umanizzare l’ospedale, renderlo più gradevole ai bambini, colorato e ricco di attività di svago che facciano venir loro voglia di sorridere, e non di piangere. È bello poter pensare all’ospedale non a un luogo in cui si soffre, ma al posto in cui si guarisce.

Mi parli del suo progetto dell’ospedale ad Hargeisa, in Somaliland. Quali i prossimi passi?

Io e alcuni colleghi abbiamo deciso di portare avanti l’idea del medico somalo Mohamed Aden Sheikh, che purtroppo è mancato prima di riuscirla a vedere realizzata. Il progetto, finanziato da La Stampa, prevedeva la creazione di un ospedale capace di diventare autonomo nel giro di tre anni. Ed è andata bene: i medici torinesi hanno formato i colleghi del Somaliland, che adesso gestiscono il reparto di pediatria senza il nostro supporto. I prossimi passi sono creare i reparti di neonatologia e chirurgia pediatrica, ripartendo dalla formazione. Molte associazioni hanno dato il loro contributo per la crescita dell’ospedale; fra queste, quella di Marco Berry, di cui sono vicepresidente, che organizza una serie di iniziative – giochi di magia, eventi, cene con chef stellati – il cui ricavato viene devoluto all’ospedale.

Che consigli dà a chi sta vivendo una situazione simile a quella di suo figlio?

Consiglio di vivere intensamente la propria vita. Mio figlio ha vissuto solo vent’anni, ma che vent’anni! Credo che la sua sia stata una vita molto bella. Carlo si riteneva già fortunato di essere vivo e, essendosi trovato più volte faccia a faccia con la morte, riusciva ad apprezzare anche le piccole gioie della vita.

 

Piero Abbruzzese, chirurgo pediatrico, è stato direttore del Dipartimento di Chirurgia generale e specialistica dell’ospedale Regina Margherita di Torino. Sotto la Mole dal 1996, ha rivoluzionato l’ospedale dando vita alla Fondazione Forma, il cui obiettivo primario era quello di “bambinizzare” il nosocomio, dipingendo i muri con i personaggi dei fumetti e creando una biblioteca a misura di bambino. Oggi si dedica a diversi progetti di solidarietà, fra cui quello dell’ospedale pediatrico creato assieme ad alcuni colleghi ad Hargeisa, in Somaliland.

Il libro è acquistabile su Amazon e presso le librerie informatiche

Autore: Redazione

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