La situazione sta peggiorando, afferma l’autore del BMJ: la percentuale di medici che soffre di burnout è in crescita. Una diffusione che sfiora “livelli epidemici”, secondo i docenti (di medicina e sociologia) che firmano l’editoriale, e che richiede una risposta “di sistema”: nonostante per ciascun medico, come singolo, dare il massimo di sé abbia implicazioni di responsabilità professionale (quindi imprescindibili), a farsi urgentemente carico del problema devono essere la professione in generale nonché le amministrazioni che si occupano di salute.
Le riflessioni indagate nell’articolo fanno sospettare che il terreno del burnout presenti criticità comuni a prescindere dai confini nazionali – problemi che in alcuni casi, fuori dall’Italia, appaiono addirittura peggiori. Il caso del ‘giusto orario’ è indicativo per il fatto che le riflessioni sul tema, sulle pagine del BMJ, non danno per scontata l’idea di adeguato riposo. Per cui si riporta l’opinione di chi è a favore di turni di 24 ore e argomenta che la relazione tra orari di servizio e sicurezza delle cure (quindi rischi per i pazienti) non è sostenuta da alcuna evidenza: “Per oltre un decennio la Direttiva Europea sull’Orario Lavorativo (il riferimento è alla Direttiva 2003/88/CE: vedi) ha imposto che i medici abbiano almeno 11 ore di riposo al giorno; ma in altri paesi, per esempio negli Stati Uniti, i medici lavorano su turni più lunghi”. La controargomentazione è che l’evidenza è “limitata” e che “la deprivazione di sonno è una nota causa di burnout”, pertanto una “ragione sufficiente da opporre a turni di lavoro più lunghi”. Evidenze e dati statistici a parte, alla fine trova spazio anche il buon senso comune: “I medici non sono diversi dalle altre persone quanto a necessità di sonno regolare”. E ancora: “incoraggiare dei turni più lunghi significherebbe perpetuare il mito secondo cui i medici sono sovrumani e ignorare gli effetti collaterali potenzialmente dannosi di fatica ed esaurimento”. (In Italia la direttiva è stata recepita, almeno sulla carta, nel 2014: vedi).
La parte più difficile del discorso è, al solito, quella relativa alle possibili soluzioni.
Secondo gli autori dell’editoriale, e altri che hanno contribuito all’approfondimento, focalizzare l’attenzione sulla resilienza individuale rischia di allontanare il discorso dalla responsabilità di sistema (di cui il burnout è effetto collaterale) e quindi di compromettere l’analisi delle cause: se della malattia si curano solo i sintomi, il beneficio, com’è noto, è temporaneo. Per questo l’appello è che i rappresentanti istituzionali e politici provvedano a una revisione generale delle condizioni di lavoro: se l’intervento individualizzato può marcare qualche piccola differenza, solo un’azione coordinata, a livello di sistema, sarà in grado di risolvere il problema alla radice.
Di Sara Boggio
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Autore: Redazione FNOMCeO