Medici e “smile”: operazione sorriso nel mondo

È nostra intenzione illustrare le iniziative di volontariato poste in essere dai medici italiani e dalle organizzazioni no profit collegate. Non tanto come “vetrina delle vanità” ma come dimostrazione pratica dell’impegno professionale al servizio dei più deboli, degli ultimi. Iniziamo con Operazione Smile “Operazione Sorrisi nel mondo” – anche se già nel passato ci siamo occupati delle attività del CUAMM – che il 9 dicembre scorso ha celebrato alla Camera dei deputati, alla presenza del Presidente Fini, i suoi 26 anni di attività di volontariato, sostenibilità e cooperazione.


La Fondazione Operation Smile Italia ONLUS opera dal 1982 in 50 Paesi tra i più poveri del pianeta, cura ogni anno migliaia di bambini nati con gravi malformazioni al volto, promuove l’autosufficienza medica e crea strutture specialistiche di avanguardia e cura le formazione del personale medico locale. Al Domenico Scopelliti, tra i fondatori di O.S. Italia Direttore del Centro Maxillofacciale – Villa Betania – Roma e oggi Direttore Scientifico, abbiamo rivolto alcune domande:


Perché “Operazione Sorriso”?
E’ un’idea che nasce negli Usa a Norfolk, in Virginia. Bill Magee, chirurgo plastico e la moglie Kathy, dopo un viaggio nelle Filippine dedicato alla cura di pazientii con il labbro leporino, decisero di aiutare i bambini con malformazioni del volto. Immagino che la decisione derivò dalla vista di una così grande moltitudine di bambini cui il sorriso era stato negato e trasfigurato dalla malformazione. Per la prima volta ci si accorge di una realtà sanitaria che non investe l’emergenza ma che riguarda la dignità e l’integrità fisica di una grande “fetta” di un mondo emarginato e dimenticato. Il nome deriva proprio da ciò: un’azione che ha come obiettivo restituire il sorriso a chi è stato negato dalla nascita.


Quante missioni avete compiuto e quanti medici italiani avete coinvolto?
Operation Smile ha compiuto 26 anni. Ha effettuato oltre 5000 missioni in 51 paesi, creato 8 centri di eccellenza, coinvolto oltre 7000 volontari. Ci sono medici italiani cui si aggiungono altri 40 volontari dedicati a varie attività di supporto e complementari.


Quali gli specialisti più interessati?
Sono ammessi alle missioni e alle attività solo professionisti che già svolgono tale attività superspecialistica nel loro paese e quindi non devono essere formati o formarsi nel corso delle missioni. Questo non riguarda solo i chirurghi ma anche gli anestesisti, i pediatri, i dentisti, i logopedisti, gli infermieri. Per poter far parte di operation smile non serve essere solo buoni e disponibili: bisogna essere professionisti di alto livello. Operare un bambino con una malformazione non è urgente: è necessario farlo in condizioni di standards adeguati. Non si salva la loro vita, la si deve rendere migliore. Un volontario non professionale è come un medicinale scaduto, un giocattolo rotto, unapparecchio elettromedicale inviato in un luogo dove non esiste la corrente elettrica.


Ridare un sorriso soprattutto ai  più piccoli: che sensazione dà?
Non ci sono parole sufficienti a spiegare talvolta le emozioni. Proviamo spesso a raccontarle tramite i nostri volontari, appena rientrano dalle missioni. Tutti raccontano aspetti diversi, hanno contatti con situazioni umane assai diverse. Come diverse sono anche le ragioni per cui loro stessi partono. Per tutti la vita cambia, acquisisce un senso diverso. Si condivide lidea di un mondo che in parte dipende proprio da noi e dalle nostre azioni.
Operiamo in genere i bambini più piccoli, quelli che una volta trattati non avranno memoria della loro condizione alla nascita, restituendoli ad una vita normale. Spesso però alla fine della missione arrivano quelli più adulti, quelli che hanno già capito di essere diversi dagli altri, ed il loro viso segnato dalla malformazione preannuncia una morte relazionale, sociale, che a volte è più tragica ed assoluta di una vera e propria morte fisica. Sono vite che raccontano negli sguardi storie di emarginazione, di abbandono, di solitudine. Non parlano la nostra lingua, spesso neanche la loro riescono a pronunciarla in modo comprensibile. Questi sguardi ci avvolgono di colpe, quando spesso dobbiamo negare loro l’opportunità di essere restituiti al mondo. Ma sono gli stessi sguardi che ci fanno tornare nei luoghi delle missioni sperando di incontrare quel bimbo, ormai adulto, per potergli ridare il sorriso, il suo.


Come riesce a conciliare la professione, la vita provata e la sua intensa attività di volontariato?
Male. Il volontariato è una scelta di vita. Non è qualcosa che si fa solo quando tutti i propri interessi sono esauriti. Quella è solo elemosina. Allora non è una esperienza che si esaurisce in una singola azione, un viaggio umanitario, come molti chiedono.
Meglio, se si fa per tacitare le proprie coscienze, dare una moneta fuori dalla chiesa o compilare un modello di conto corrente postale e d’affrontare con coraggio le file alle poste: anche questo alle volte è un vero e proprio sacrificio. Le persone che amiamo in fondo sono come noi, anche se non fanno le stesse cose. Stanno al nostro fianco perché noi siamo fatti così e spesso ci amano anche per queste nostre “doti”, spero!


Cosa pensano di voi i medici locali?
Dipende dai paesi. In genere si parte proprio da questo, cioè dalla possibilità di incontrare colleghi interessati ad apprendere le tecniche chirurgiche ed i protocolli per aiutarli a prendersi cura dei loro pazienti. I rapporti quindi sono in genere buoni poiché basati su interessi scientifici ed assistenziali. Talvolta, come dappertutto si incontrano persone interessate al danaro ed alla possibilità di apprendere gratuitamente mestieri che poi vorrebbero esercitare privatamente.
Ovviamente noi cerchiamo di evitare tutto questo.


Quali i maggiori problemi incontrati dal punto di vista tecnologico, operativo e ambientale?
Noi operiamo rispettando elevati standard qualitativi ed in linea con i principali protocolli internazionali dettati dalle più autorevoli Società Scientifiche. I nostri bambini ovunque devono essere trattati come se il loro intervento venisse effettuato in uno dei nostri ospedali europei o americani.I problemi tecnologici o di materiali devono essere risolti prima di iniziare qualsiasi attività. Le strutture sanitarie devono rispondere a requisiti minimi di sicurezza e di dotazioni strumentali. Niente ospedali da campo o situazioni di emergenza tipo guerra.


Insegnate a “pescare” e date solo il “pesce” necessario?
Non partiamo mai con attività in un paese se non vi è un piano quinquennale che ha come obiettivo l’autonomia. La formazione del personale medico e paramedico è parte integrate ed essenziale della nostra azione ed inizia da subito con la prima missione. Diamo quindi da subito pesce, canne, mulinelli ed insegniamo a procurarsi le esche.


Quali le rinunzie più pesanti?
La pesca , la mia vera passione. Sto ormai fuori tre mesi l’anno per Operation Smile. Torno ed il lavoro mio in ospedale mi assorbe molto. Gli affetti già soffrono. La pesca è ormai relegata a pochissimi giorni l’anno. I miei amici Gianfranco D’angelo e Sandro Onofaro sono arrivati a dedicare 1 euro di donazione per ogni copia di un DVD dedicato alla Scuola di Pesca pur di vedermi in barca qualche giorno in più.


Quali le cose sulle quali bisogna ancora, e con maggiore urgenza, intervenire?
Abbiamo sempre bisogno di molte cose. Soprattutto ora che stiamo sviluppando importanti progetti: un ospedale in Ghana e finalmente la Smile House a Roma, un Centro di Eccellenza dove trattare in modo adeguato anche i nostri bambini. Ce l’hanno persino in India!


Qualche rammarico o nostalgia?
Si. Non aver iniziato qualche anno prima. A quest’ora molte cose le avrei già realizzate.


Alcuni episodi o aneddoti più ricchi di significato?
In Marocco, quattro anni fa, un ragazzo di 12 anni con un labbro leporino, arrivato il primo giorno. Da subito scattò una sorta di reciproca simpatica, fatta di sguardi, pacche sulla schiena e simulazioni di lotta, sorrisi accennati. Poche parole. Non servivano. Eppoi io neanche capisco il dialetto berbero. Ogni giorno veniva rinviato perché c’erano bambini più piccoli. Alla fine della missione non c’era più tempo ed i materiali erano finiti. Ci guardammo a lungo. Non pianse neanche. La madre si. Non seppi più nulla. Andai altre volte in Marocco, senza più incontrarlo.
L’anno scorso stavo ad Oujda, Marocco sempre, ma al confine con l’Algeria. Mi sentii tirare il camice da dietro durante lo screening. Era lui, più altro, aveva ormai 15 anni. Lo riconobbi dallo sguardo, da quegli occhi magnetici che avevano lasciato un’immagine ripetuta sulla mia retina. Lo operai per primo, contravvenendo ogni regola, anzi minacciando chiunque me lo avesse impedito.


Quale, in conclusione, il bilancio di questa meritoria e, crediamo, senz’altro gratificante esperienza?
Bilancio. Positivo. Quando mi chiedono perché lo fai io rispondo sempre: perché no? Farebbe bene anche a molti colleghi al posto del l’ormai soppresso servizio militare.

Autore: Redazione FNOMCeO

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