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Medici, patologie stress-correlate e vissuto emotivo

A quanti tra i colleghi sarà capitato di sentirsi dire da un assistito con aria stupita e ironica ‘ah, ma allora anche i dottori si ammalano?’

Non solo la categoria medica non fa eccezione rispetto ad altre figure professionali, ma pare che vi sia un’elevata percentuale di medici che soffrono di patologie stress-correlate: burn-out, depressione e suicidi, difficoltà familiari testimoniate dall’alto numero di divorzi e abuso di sostanze (alcol o droghe).

Di fronte al mancato re-finanziamento del sistema sanitario, i medici come altri professionisti della salute si trovano, infatti, a dover dare il massimo e molto di se stessi per continuare a garantire la qualità del proprio lavoro: il non aver mai orario per tonare a casa, l’incontro con le aspettative di guarigione da ogni tipo di patologia, lo spettro della denuncia nel caso in cui queste aspettative non siano pienamente soddisfatte, la sensazione di impotenza di fronte alla morte e alla sofferenza dei familiari sono tutte costanti della professione medica.

In una visione semplicistica di bianco e nero, in cui tutto è valutato per il mero risultato, si tende a dimenticare il processo: un medico che in un preciso momento della propria vita inciampasse, non reggendo il carico emotivo della professione, forse non sarebbe capito e probabilmente sarebbe guardato con diffidenza, magari anche dagli stessi colleghi. Questo perché non esistono, nella realtà del sistema sanitario, degli ‘spazi di sfogo’ per queste défaillance, non esistono percorsi di aiuto per medici in difficoltà; semplicemente si tende a non considerare questa eventualità e, nel caso questo si verifichi, ad allontanare chi l’ha incautamente evidenziata.

Sebbene il processo di cura sia inevitabilmente ed indissolubilmente legato al rapporto che si crea tra due persone, ovvero medico e paziente, non si presta abbastanza attenzione né durante il percorso formativo, né nella fase dell’aggiornamento professionale, al vissuto emotivo del medico. Al professionista sanitario viene, in altre parole, chiesto di essere efficiente, competente, accogliente, disponibile, comprensivo ed empatico: non ci sono altre possibilità, così deve essere.

E se un medico non riesce a sentirsi tale, ne deriva la sensazione di inadeguatezza e di disagio.

Tutte le speculazioni che, da qui, possono derivare su di un tale disagio paiono – di fatto – ingiuste e riduttive.

Tanto più se l’argomento si strumentalizza per far notizia e inviare messaggi come ‘la sanità privata funziona meglio di quella pubblica’, come si legge in un recente articolo apparso su «Vanity Fair».

Se, infatti, all’autore di questo articolo sicuramente va il merito di aver sollevato un velo sul fenomeno del burn-out per i medici, d’altro canto va il demerito di stigmatizzare la storia di una dottoressa anestesista con problema d’abuso d’alcol per inviare – tra le righe – messaggi discutibili.

Spesso, infatti, il sistema pubblico deve assolvere a problemi di cui il privato non si fa carico perché vi è un rapporto remunerazione/difficoltà certamente maggiore.

Una riorganizzazione del sistema sanitario ospedaliero che tenga conto delle leggi europee sui turni di lavoro e una riorganizzazione del sistema sanitario del territorio che permetta realmente di lavorare in rete, supportati dai mezzi di ‘information, communication and technology’, permetterebbero un miglioramento delle condizioni di lavoro e un fattore protettivo contro lo stress ed il burn-out, ma forse non basterebbero ancora.

Molto cambierebbe, invece, se gli assistiti, gli stessi medici ed il sistema nel suo insieme iniziassero ad accettare l’idea che il medico è una persona, con i suoi pregi e i suoi difetti, e che come tale va trattato con la comprensione dovuta a qualsiasi uomo, che per di più ha scelto come professione una professione d’aiuto verso il prossimo”.

Alessandro Bonsignore

Coordinatore Osservatorio Giovani Professionisti FNOMCeO

Autore: Redazione FNOMCeO

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