Tra memoria e medicina. Le parole della storia. Intervista allo storico Carlo Greppi

Tempo e cura: spesso si dice che il tempo è la misura della cura e della relazione. Ma è anche il filtro che – progressivamente – alleggerisce il ricordo, attenua il dolore, somministra speranza. Da storico che riflessioni ti senti di fare?

Il tempo scorre, incurante delle vicende umane, è vero, ma parallelamente il nostro passato può rivelarsi incredibilmente vicino. Nel suo libro Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz (Bollati Boringhieri 2017) il direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau, Piotr M. A. Cywiński, dedica parole importanti a entrambi gli aspetti.

Da un lato, riferendosi al tentativo di un sito memoriale di proteggere e mostrare l’autenticità del luogo, sostiene che “niente ha un effetto più catastrofico del trascorrere del tempo”, e come esempio più emblematico prende quello del filo spinato: “Sottile, esposto al gelo, alla pioggia, alle oscillazioni di temperatura, appesantito dal ghiaccio e cotto nel sole di agosto, deve essere cambiato ogni dozzina d’anni. Qualcuno protesta, sostenendo che non si dovrebbe installare del filo spinato moderno in un luogo in cui il paradigma è l’autenticità. Invece si può, e deve essere fatto. Diversamente, Auschwitz sarebbe circondata da migliaia di pali di cemento isolati. La connessione tra i pali sarebbe invisibile. I visitatori non capirebbero come le SS avevano diviso il campo in settori delimitati: si troverebbero davanti soltanto un’incomprensibile foresta di pali”.

Dall’altro, Cywiński rileva come la memoria rimuova, in un certo senso, “la dimensione del tempo”, mettendoci faccia a faccia di fronte ai fatti che vogliamo ricordare. Credo che questa riflessione valga per la memoria individuale e per quella collettiva. E lo stesso fa, a mio avviso, un certo modo di intendere la storia, intesa come studio dell’uomo nel tempo, che ci permette di tornare su alcune scene del passato ai nostri occhi rilevanti, e provare a trarne qualche insegnamento.

Molti storici tendono a occuparsi dei tratti più dolorosi del nostro passato, riportando appunto in vita ricordi sbiaditi, costringendo i loro lettori – se parliamo di libri di storia – ad affrontare qualcosa che era stato almeno in parte dimenticato, rimosso, che in qualche modo si voleva tenere a distanza di sicurezza. Credo che non sia compito dello storico somministrare speranza, quanto piuttosto dare tridimensionalità al passato e mostrare le ricorrenze e le rime che la storia fa con il presente, laddove ce ne sono. E sono convinto che questo significhi prendersi cura di noi stessi in quanto esseri umani. Occuparsi di storia, sempre secondo il mio modo di vedere, vuol dire dare un significato profondo, di riflesso, alle nostre azioni e alle nostre inazioni oggi, perché hanno delle conseguenze che riusciamo a vedere con nitidezza quando ci occupiamo di quelle dei nostri antenati. E perché – lo dico spesso – il nostro presente sarà il passato di qualcun altro. Dovremmo imparare a guardarci anche in maniera retrospettiva, a leggere i nostri comportamenti e il presente in cui siamo immersi come se ci dovessimo tornare su, un domani, per giudicare il tempo che abbiamo trascorso su questa terra.

Linguaggio e ricordo: nelle nostre narrazioni, nelle nostre parole si annida la storia/le storie. La manutenzione delle parole è fondamentale quando si raccolgono narrazioni e biografie. Nella tua esperienza di storico – che può essere avvicinata a quella del clinico come ci ricorda Carlo Ginzburg– quanto conta questo aspetto?

Anche un documento in apparenza asettico è stato prodotto da esseri umani, con maggiore o minore intenzionalità ma spesso con la nitida consapevolezza che avrebbe potuto essere ripreso dai posteri. Le narrazioni autobiografiche, che siano orali o scritte, hanno una temperatura emotiva rara in altre tipologie di tracce del passato – e questa è una risorsa straordinaria – ma sono evidentemente fonti fragili e con un alto tasso di soggettività, che bisogna tenere in considerazione.

Il primo capitolo de I sommersi e i salvati – “La memoria dell’offesa” – Primo Levi lo iniziava così, oltre trent’anni fa: “La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno dei due ha un interesse personale a deformarlo”.

Non è un caso che si associ spesso il lavoro dello storico – come hai fatto tu con quello del clinico – a quello del giudice. Con una differenza non da poco: noi non abbiamo la responsabilità (immensa, sconvolgente) di scrivere sentenze, ma mettiamo in atto una critica delle fonti per soppesare ogni testimonianza e, se possibile, per incrociarla con altre e con documenti di diversa natura scaturiti dallo stesso contesto.

Io ho provato a farlo nel mio Uomini in grigio e in un libro che ho da poco ultimato sul 25 aprile 1945, sperimentando in certi momenti una vera e propria vertigine di fronte a ricordi scolpiti (e per questo sospetti) o viceversa oscillanti, ad autorappresentazioni che sfuggono alla prova, a deliberate menzogne, a tentativi di far tornare i conti messi in atto da altri esseri umani. E questa è una responsabilità altrettanto immensa: il nostro lavoro contribuisce a scolpire un’immagine di altri, che prima di noi hanno vissuto in questo mondo. “Manutenzione” e “cura” devono essere quindi due concetti guida anche per il mestiere di storico, che deve sempre avere una grande onestà intellettuale.

 

Carlo Greppi (Torino, 1982), storico e scrittore, collabora con Rai Storia ed è membro del Comitato scientifico dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”. È socio fondatore dell’associazione Deina e presidente dell’associazione Deina Torino, con le quali organizza percorsi formativi per studenti nelle storie e nelle memorie del Novecento. Il suo libro L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager (Donzelli 2012) ha vinto il premio “Ettore Gallo”, destinato agli storici esordienti. Ha pubblicato il saggio Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Feltrinelli 2016) e i romanzi per ragazzi Non restare indietro (Feltrinelli 2016, premio Adei-Wizo, sezione ragazzi) e Bruciare la frontiera (Feltrinelli 2018). Ha curato e tradotto il libro di Piotr M. A. Cywinski, Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz (Bollati Boringhieri 2017), ed è in corso di pubblicazione il suo saggio 25 aprile 1945 (Laterza 2018).

Autore: Redazione

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