Ha un nome, un volto, una voce, una storia, come tutti. Ha anche un corpo, che ha scelto di non mortificare in abiti informi nella sua prima uscita dopo la violenza. "Mi sono fatta forza, ho scelto un tubino e dei tacchi.
Perché rinunciare ora alla mia femminilità sarebbe essere vittima due volte, farmi rubare anche la libertà" ci racconta. Quando inizia a parlare, però, la dottoressa aggredita e violentata un mese fa durante il turno di guardia
medica in provincia di Catania, va oltre: la sua voce si fa messaggio, la sua storia diventa quella di tutti i medici, costretti a volte a lavorare in condizioni di non completa sicurezza. "Ho una grandissima forza – ci confida
-, un’energia che sta schiacciando la paura dovuta al trauma. Sicuramente le paure, le emozioni riaffioreranno, lo so. Ma ora devo avere la forza di portare avanti questa battaglia: io sono la testimonianza di quanto noi medici abbiamo perso la dignità".
Forza: una parola che ricorre spesso in questa intervista un po’ sui generis, che abbiamo raccolto a margine dell’intervento della collega a Giardini Naxos, di fronte a tutti i presidenti degli Ordini dei Medici e delle Commissioni Albo Odontoiatri d’Italia, riuniti in Consiglio nazionale, al presidente dell’Enpam, Alberto Oliveti, ai Giovani medici dell’osservatorio Fnomceo, e continuato poi con lunghe chiacchierate nei corridoi, a tavola, per telefono, per mail, nei giorni successivi, sino a quando, stanca del clamore mediatico, non si è sentita di partecipare a Unomattina, affidando la sua voce e i suoi pensieri al Segretario Fnomceo, Sergio Bovenga, e poi ancora oltre, in vista della sua partecipazione alla Giornata contro la Violenza sulle donne, il 25 novembre, quando sarà a Montecitorio chiamata da Laura Boldrini. Un dialogo che, siamo certi, non si interromperà, perché, come ha più volte affermato, "l’Ordine non è solo casa, deve essere la famiglia di ogni medico". E una di famiglia lei lo diventa, aprendosi con energia e vulnerabilità insieme, non tacendo neppure sulle questioni più scomode.
"A Giardini lei ha usato parole dure, ha accusato le istituzioni di averla violentata … è ancora convinta di questo? O il tempo trascorso ha attenuato la sua rabbia?" le chiediamo. "Da più parti mi hanno accusato di
essere stata aggressiva verso le istituzioni – risponde – . Ebbene sì, lo sono stata e voglio continuare ad esserlo. Noi medici siamo tutti vittime: lo siamo quando ci apprestiamo a fare un turno di notte in una postazione
nella quale siamo completamente indifesi, alla mercé di qualsiasi delinquente voglia entrare. Mi hanno raccontato i colleghi che il mio aggressore si era presentato anche la sera prima; era come se mi facesse la
posta, se avesse pianificato il tutto. E quando mi ha trovata di turno, da sola e senza sistemi di allarme, ha potuto mettere in atto il suo piano. Siamo vittime quando ci chiamano a una visita domiciliare in un luogo
isolato, e non possiamo scegliere se andare o meno, perché quando il paziente ci chiede aiuto la risposta non può essere che un sì. Ma siamo anche vittime quando permettiamo che la nostra professione venga snaturata
dalla burocrazia, dai protocolli, dal timore di denunce. Anzi, in quel caso, lo siamo forse ancora di più. Perché io ho subito quello che ho subito perché ho risposto alla richiesta di soccorso di un paziente. Se un medico
antepone i protocolli o la cosiddetta medicina difensiva al bene del paziente, viene derubato della sua stessa identità di medico. Per questo ho detto che siamo tutti vittime del sistema, in un clima di pressoché assoluta
omertà, o semplice rassegnazione. Per questo ho parlato di mafia di Stato".
"Lei ha pagato, in un certo senso, proprio questo desiderio di prossimità, questo voler essere vicino al paziente. In vista di un suo probabile ricollocamento, non ha il desiderio di un lavoro più tranquillo, magari in un ufficio o in un Ente?" "No, assolutamente, sarebbe aggiungere violenza su violenza – ci risponde decisa -. Io ho scelto questo lavoro per passione, volevo essere in prima linea, sentirmi utile sul campo. Ora lo so che, quando uscirò dall’infortunio, non potrò più tornare a fare quello che facevo: come anche ha ben compreso la presidente Roberta Chersevani, con quale animo potrei guardare chi bussa alla mia porta? Non vedrei più il mio
paziente, ma un potenziale aggressore. Credo però di potermi rendere utile in altri modi".
"Quando uscirò dall’infortunio" dice … il suo è dunque considerato un infortunio sul lavoro, come se fosse scivolata su un pavimento bagnato o caduta sedendosi su una sedia rotta?".
"È vero – conferma – il giorno dopo la violenza, alla presentazione della mia querela e del certificato del pronto soccorso, la Asl ha aperto una pratica di sinistro con la compagnia di assicurazione. Io da questo fatto mi
sono sentita umiliata, anche se capisco che non si poteva fare altro, perché non esiste l’ipotesi di stupro nella convenzione. Io invece proporrei di mettere proprio la voce specifica, perché non si può continuare a chiudere
gli occhi. Quando andiamo a fare il turno noi siamo a rischio: è giusto che questo rischio sia contemplato e sia chiamato con il suo nome. Altrimenti non saranno mai possibili delle politiche efficaci di prevenzione, se neppure si mette in conto l’esistenza del rischio stesso".
"È questo dunque che intendeva quando ha detto che la sua aggressione è stata ridotta a un infortunio sul lavoro … perché anche queste sue parole sono state fraintese" "Sì, intendevo questo, ma non soltanto. Ci tenevo
anche a sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che, con questi presupposti, nessun risarcimento equo dal punto di vista civile sarà possibile. Perciò mi ero rivolta al presidente dell’Enpam Oliveti, affinché creasse un fondo per risarcire le colleghe vittime di stupro, così come ha da poco istituito il fondo della maternità: forse non avrò usato, sull’onda dell’emozione, le parole più ‘tecniche’ ma erano questi i concetti che volevo esprimere. Niente da dire, invece, sul penale: il Gip ha contestato al mio aggressore nell’ordinanza di arresto, tutti i reati commessi sulla mia persona, compresa l’aggravante per aver commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Spero che le istituzioni, quindi anche la Magistratura, indaghino anche su quelli che chiamo i ‘mandanti’ della mia aggressione, cioè i corresponsabili." "Può spiegare meglio?" "Ribadisco: la mia aggressione non sarebbe mai avvenuta o perlomeno non sarebbe stata così brutale (due ore in balia di un violento che poteva anche uccidermi, senza che nessuno intervenisse) se non fossi stata completamente sola e senza avere a mia disposizione sistemi di videosorveglianza e di allarme adeguati". "Verranno installati, ora?" "Al momento non ho notizie in tal senso".
"Ma torniamo a lei, e parliamo di futuro: dice che non vuole finire in un ufficio. In quale altro modo sente di poter essere utile ai suoi pazienti, senza mettere in pericolo la sua vita e il suo equilibrio? ". "Io sono ginecologa. Mi piacerebbe poter stare vicino alle donne, nei consultori, magari dedicarmi proprio a chi, come me, è stata vittima di questa specifica violenza. Vedremo se sarà possibile. Io mi metto a disposizione, metto a disposizione la mia professionalità e anche questa mia esperienza negativa, perché possa nascerne qualcosa di buono. Di sicuro non ho intenzione di ‘pietire’ da una qualche commissione che mi si conceda un ricollocamento, che mi spetta di diritto: sarebbe l’ennesima umiliazione".
Autore: Redazione FNOMCeO