Sempre più vicino il Convegno che a Padova, dal 15 al 17 Ottobre, vedrà riuniti medici, sociologi, rappresentanti delle istituzioni e dell’Università per “Pensare per la Professione Medica”.
Ma come può il punto di vista femminile arricchire e illuminare da una diversa prospettiva questa discussione?
L’Ufficio Stampa lo ha chiesto a una donna medico: Antonella Agnello, vicepresidente dell’OMCeO di Padova.
Dottoressa Agnello, qual è il valore aggiunto che le donne medico possono apportare alla professione?
Per noi donne medico è di grande importanza, nella prassi professionale, l’aspetto costituito dalla cultura femminile dell’assistenza al malato e dalla tradizione tutta al femminile delle cure del corpo. Considero questo aspetto di alta valenza antropologica; e penso anche possa essere efficacemente recuperato come un “valore” in sé, da aggiungere alla “scientificità” tipica del corpo dei saperi medici, che più tradizionalmente si possono interpretare come “maschili”.
E come si può conciliare questa visione scientifica e quasi “scientista” della medicina con l’accoglimento e l’empatia?
Non c’è dubbio che i processi vitali obbediscono al determinismo, ma l’individualità s’impone ovunque. L’anatomia studia l’organizzazione, ma la funzione è indeducibile dalla forma. Personalmente provengo da una scuola in cui la conoscenza e lo studio della fisiopatologia sono sempre stati preponderanti nella formazione professionale, anche se sempre legati con un saldo ancoraggio alla clinica.
Cos’è, per lei, e in generale per una donna medico, l’atto clinico?
La clinica che ho sempre vissuto è quel momento della medicina che parte non dalla classificazione delle malattie, ma dalla presa d’atto, dall’analisi e dalla descrizione di un singolo fatto morboso, in vista della sua riconduzione alle categorie fisiopatologiche attraverso la diagnosi. Poi, in attesa del conclusivo atto diagnostico, la fisiopatologia s’innesta sulla clinica attraverso ciò che potrebbe chiamarsi il ragionamento fisiopatologico: un percorso inferenziale che parte dall’individuazione della funzionalità alterata, si sofferma in un secondo momento a cercare la causa dell’alterazione, imposta quindi il giudizio diagnostico, e verifica infine la correttezza dell’interpretazione con gli effetti del rimedio che si è deciso di somministrare.
Ma sullo sfondo resta qualcosa che rimane un possesso prezioso e geloso della clinica che in quanto donna medico ho sempre privilegiato e che non appartiene alla patologia vista scientificamente: è il fenomeno patologico coesistente con l’essere, ovvero il malato – persona, con il suo stile di vita e la sua individualità psicofisica, irriducibili entrambi a singole categorie di qualsiasi schema classificatorio.
Una medicina incentrata sul malato come persona, prima ancora che come paziente…
Di più. Noi medici abbiamo sempre cercato di definire il malato con apposizioni: malato oggetto, malato soggetto, malato persona… Ognuna di tali apposizioni è strumento per ridefinire, di volta in volta, il concetto di relazione terapeutica, che si presenta quale importante punto di incontro tra medico e paziente per sortire il miglior risultato possibile nella relazione di cura. Ma il quesito dovrebbe essere ancora più radicale, perché se il malato è un po’ tutte le cose appena dette, la miglior definizione di malato passa per l’interrogativo “chi è il malato?” e non “che cosa è”.
Quindi, “chi è il malato?
Il malato è il riferimento di ciò che si manifesta. È senz’altro un fenomeno che si manifesta con l’essere e, vera peculiarità, ne è coestensivo. Dobbiamo pertanto mettere a punto una nuova ontologia del malato, inteso come coestensione dell’essere e del fenomeno, non meravigliandoci che così facendo scopriremo un nuovo oggetto di conoscenza medica. Dobbiamo reimpostare una nuova idea di malato, che ha conseguenze di carattere pratico e di utilità clinica con importanti implicazioni operative.
E quali sono, nella pratica, queste implicazioni?
Una fra tutte: non solo insegnare le scienze umane al futuro medico, perché il malato è persona, ma insegnargli a riconoscere la persona che è dentro al “malato”.
(Leggi anche la presentazione dell’evento a cura di Annarita Mascolini, della segreteria scientifica del Congresso)
Autore: Redazione FNOMCeO