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Quando lo screening non serve più. E come dirlo ai pazienti

“Se mi si presentasse una paziente che non ha effettuato una mammografia negli ultimi due anni, probabilmente le consiglierei di farne una. Ma se quella paziente avesse 93 anni, una broncopneumopatia cronico ostruttiva, un diabete e un’osteoartrite grave che non le permette di essere indipendente, mi interrogherei sui reali benefici di un test di questo tipo”. A scriverlo è Alexia M. Torke, associate professor of medicine dell’Indiana University School of Medicine, in un articolo pubblicato recentemente sul JAMA Internal Medicine (1). La sua riflessione fa riferimento a una ricerca della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, dalla quale emergono importanti considerazioni in merito alle strategie comunicative più idonee per consigliare ai soggetti in età avanzata di non sottoporsi a test di screening inutili e potenzialmente dannosi (2). Ancora una volta, è prima di tutto fondamentale che tra il medico e il paziente sia presente un rapporto di fiducia.

Nell’ultimo periodo è cresciuta la consapevolezza riguardo l’inutilità di alcune procedure di screening per il cancro a cui sono sottoposti, spesso con più rischi che benefici, molti pazienti anziani. Ciò ha portato alla nascita di diverse iniziative finalizzate a ridurre il numero di test non necessari, attraverso un’analisi dei rischi associati e la promozione di una comunicazione trasparente con il paziente. “In quel caso, calcolerei la sua aspettativa di vita con un indice prognostico, per concludere che quella donna non otterrebbe alcun beneficio da una mammografia – scrive Torke – dal momento che con ogni probabilità non vivrebbe più di 4-5 anni”. Anche le linee guida suggeriscono ormai di personalizzare questa proposta sulla base di fattori quali l’età, le comorbilità e l’aspettativa di vita. Tuttavia, gli sforzi fatti negli ultimi anni per promuovere un atteggiamento positivo nei confronti dello screening per il cancro hanno fatto sì che il consiglio da parte del proprio medico, di rinunciare a sottoporsi a questi test, possa essere vissuto in modo negativo dai pazienti.

In che modo è quindi preferibile comunicare questa possibilità? È questa la domanda da cui sono partiti Nancy L. Schoeborn e colleghi, della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, per uno studio i cui risultati sono stati poi pubblicati sul JAMA Internal Medicine. I ricercatori hanno sottoposto 40 soggetti, di età superiore ai 65 anni e residenti in una comunità, a un’intervista semi-strutturata  riguardante le modalità comunicative dei medici che propongono di non sottoporsi a procedure di screening per il cancro. Dalle testimonianze raccolte sono emersi due fattori significativi: in primo luogo, gli individui anziani accettano più volentieri questa eventualità se si fidano del proprio medico e se le sue argomentazioni fanno riferimento a elementi di preoccupazione per il paziente, come l’età e lo stato di salute; inoltre, la maggior parte dei soggetti preferisce che il medico non faccia riferimenti diretti alla loro aspettativa di vita.

L’importanza di un contesto relazionale caratterizzato da fiducia reciproca fa luce sulla necessità di affrontare queste tematiche in un setting longitudinale, magari a livello di assistenza sanitaria di base. “Questo risulta molto complicato, data la complessità di questo genere di comunicazioni”, scrive Torke. “Le visite nei  servizi sanitari di base tendono a essere brevi e riguardano pazienti che in molti casi sono caratterizzati da condizioni mediche complesse”.  Sarebbe quindi opportuno supportare questo tipo di comunicazioni faccia a faccia tra medico e pazienti e ampliarne la portata attraverso aiuti decisionali forniti nei servizi di base o persino a domicilio. Inoltre i medici dovrebbero, nel momento in cui consigliano a un soggetto anziano di non sottoporsi a ulteriori procedure di screening, fare riferimento a fattori che costituiscono elementi di preoccupazione reali per il singolo paziente.

Inoltre, dallo studio di Schoeborn e colleghi è anche emerso che le persone intervistate preferivano, nel momento in cui veniva presentata loro la prospettiva di non sottoporsi a un esame di screening,  che non si facessero riferimenti diretti alla loro aspettativa di vita. Secondo gli autori della ricerca, un effetto di questo tipo potrebbe dipendere dall’improvviso cambio di prospettiva per il paziente che si troverebbe a affrontare passando da una discussione riguardante il suo mantenersi in salute (“facciamo un controllo per il cancro in modo da mantenerti sana”) a una sul fine-vita (“non ti serve questa mammografia perché hai il 50% di probabilità di morire entro 5 anni”). “Una conversazione del genere può essere difficile anche per un paziente già consapevole di avere un cancro, ma potrebbe rappresentare un vero e proprio shock nel corso di una visita di routine in un contesto di assistenza di base”, sottolinea Torke.

Nel momento in cui si vuole consigliare a una persona di non sottoporsi a test di screening potenzialmente dannosi è quindi fondamentale adattare il proprio stile comunicativo alle esigenze specifiche del paziente. Tuttavia, affinché il paziente comprenda tutte le informazioni e accetti il messaggio, è necessario che tra lui e il medico esista un rapporto basato sulla reciproca fiducia. “Questi risultati derivano da un campione statistico ridotto, composto da soggetti provenienti dalla stessa casa di cure”, commenta Torke. “Altro lavoro è necessario al fine di sviluppare e validare su popolazioni più ampie messaggi e comunicazioni utili a ridurre il numero di screening inutili”.


A cura de Il Pensiero Scientifico Editore su www.torinomedica.com


Bibliografia

  1. Torke AM. Talking to patients about cancer screening cessation. JAMA Internal Medicine 2017; doi:10.1001/jamainternmed.2017.1795.
  2. Schoeborn NL, Lee K, Pollack CE, et al. Older Adults’ Views and Communication Preferences About Cancer Screening Cessation. JAMA Internal Medicine 2017; doi:10.1001/jamainternmed.2017.1778

Autore: Redazione FNOMCeO

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