Giuseppe De Rita, contrariamente agli anni scorsi, non ha una suggestione vera e propria da consegnare al popolo del CENSIS, riunito nel parlamentino del CNEL per l’evento ormai entrato nella tradizione e nella storia d’Italia: la presentazione del 42° Rapporto sullo stato sociale del Paese.
E questo 5 dicembre cade a ridosso della crisi globale dell’economia e delle borse, un evento che ha bruciato qualcosa come 400 miliardi di euro nei mercati finanziari internazionali. Insomma, non c’è da stare allegri, ma De Rita invita a non lasciarsi prendere dal pessimismo: “Occorrono volontà e orgoglio per recuperare la soggettività storica, ma la valanga di energie del passato non c’è più”. Pertanto si tratta, come dire, di limitare i danni provocati dalla crisi, e De Rita auspica una sorta di seconda metamorfosi per l’Italia, un Paese nel quale i cittadini tendono a conservare quel che hanno, ma dove occorre dire chiaro che non si può continuare ad attribuire un così grande valore al denaro. Indicazioni sulla base di linee guida larghe, che lasciano trasparire tutta la problematicità di questo momento a livello mondiale, problematicità che però da noi rischia di diventare ancor più critica, visto che l’intuizione dello scorso anno sulla mucillagine il Censis la conferma anche quest’anno, una società molecolare con le molecole che non comunicano tra loro.
Secondo De Rita, la stessa percezione della crisi è oscillante e Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, dati alla mano, ha spiegato come, nonostante tutto, il rapporto import-export delle imprese italiane non è affatto negativo. Il Paese, in altre parole, tiene, nonostante anche quest’anno è emerso in tutta la sua drammaticità il consolidamento del deficit tra il Centro Nord e il Sud del Paese. Ovunque cresce la tendenza ad abitare nelle mega city, visto che il 61 per cento della popolazione italiana vive nelle aree metropolitane. Sembra un ricordo lontano quella che, fino a pochi anni fa, sembrava una tendenza a tornare a vivere nei piccoli centri, con la riscoperta della cultura borghigiana.
Sanità italiana regge l’urto della crisi
Tiene anche il Ssn, dopo trent’anni dalla sua istituzione, confermandosi essere uno dei migliori a livello europeo e mondiale. “Il dato strutturale segnala intanto la crescita significativa della spesa sanitaria che tra il 1978 ed il 2008 e’ stata del 138,3 per cento in valore reale, doppio rispetto all’incremento del Pil. L’evolversi delle dinamiche demografiche ed economiche e il continuo avanzare delle tecnologie hanno trainato il trasformarsi delle esigenze di salute dei cittadini; e insieme agli interventi nella gestione organizzativa e finanziaria (su tutte l’aziendalizzazione e la regionalizzazione) queste fenomenologie hanno configurato un susseguirsi di momenti di passaggio”. Nel 1978, il Ssn parte “lento e penalizzato soprattutto dal mancato varo dei Piani sanitari”. Negli anni ’80 si assiste a una “mutazione genetica e culturale della domanda, legata al netto miglioramento della salute degli italiani” mentre l’offerta presenta “nodi critici che sono sempre più evidenti”.
Negli anni ’90 “si consolida nei cittadini e la consapevolezza dei nessi tra benessere e stili di vita e comportamenti preventivi”, mentre sul versante dell’offerta sono anni di “forte mutamento organizzativo, soprattutto in termini di razionalizzazione e taglio della spesa, in particolare di quella farmaceutica pubblica. Con la devolution – sottolinea il Censis – si apre un nuovo capitolo, una sfida durissima sulle implicazioni economiche e finanziarie, che dà visibilità a differenziazioni regionali che hanno radici antiche, e allo stesso tempo sembra creare i presupposti per un loro ulteriore aggravamento”, con “le situazioni più critiche che rimangano collocate al Sud e nelle Isole. E se il sistema, anche nelle zone più disagiate, ha mostrato la capacità sul lungo periodo di adattarsi ai bisogni degli acuti, il viraggio della domanda verso le problematiche legate all’invecchiamento farà sentire il suo peso anche al meridione, rendendo in larga misura insufficienti risposte di sistema non modulate sulle nuove esigenze”.
In aumento i trapianti, ma disomogenee le donazioni
“I centri ospedalieri piu’ avanzati hanno trovato nell’aziendalizzazione l’opportunità per dare impulso alle attività più complesse, e tra esse i trapianti di organo (passati complessivamente dai 2.162 del 1999 ai 3.043 del 2007), mentre i margini di crescita sono stati garantiti dal procurement di organi e tessuti, che si basa invece su una rete efficiente e capillare a livello regionale”. In questo senso “uno dei nodi critici nel panorama della donazione riguarda le regioni meridionali, che nel 2007 hanno fatto registrare 27,5 donatori segnalati per milione di abitanti, contro i 37,3 della media nazionale”.
Criticità rimangono soprattutto nella diffusione della cultura della donazione: “se nel 70 per cento dei casi infatti i familiari acconsentono alla donazione, quello della richiesta di assenso rimane comunque un momento difficile da gestire, e ancora necessario dal momento che le circa 100.000 dichiarazioni di volontà raccolte presso le Asl coprono solo lo 0,2 per cento della popolazione”. Spesso, inoltre, “intervengono fattori culturali e sedimenti di informazione su cui pesano, ad esempio, i termini spesso ambigui e scorretti usati dai media” che “finiscono per svuotare di significato le conoscenze diffuse dalle campagne di sensibilizzazione. Peraltro il dibattito sul diritto di scegliere l’interruzione delle cure dei malati terminali
(rispetto al quale si dichiara favorevole il 49,9 per cento degli italiani) si è intrecciato di recente con quello sulla “fine della vita?”, finendo per riaprire a livello mediatico la discussione sul concetto di ‘morte encefalica’, sul quale esiste invece un accordo pressoché universale nella comunità scientifica”.
Maggiore consapevolezza nell’uso dei farmaci
L’80 per cento degli italiani, secondo l’indagine Censis-Forum per la ricerca biomedica, realizzata nel 2008, ritiene che il farmaco aiuti a convivere con le patologie croniche (+26 per cento rispetto al 2002), il 76 per cento (+15,7 per cento rispetto al 2002) vede nel farmaco uno strumento per il miglioramento della qualità della vita, mentre il 54 per cento ne sottolinea il contributo nella sconfitta delle malattie mortali (+14 per cento rispetto al 2002). D’altra parte, rispetto ai propri genitori, il 54 per cento degli italiani si sente più informato sulle corrette modalità di assunzione, oltre il 52 per cento ritiene di avere più dimestichezza su quando e come utilizzarli, più del 51 per cento conosce meglio i rischi di un eccessivo consumo e degli effetti collaterali.
Emerge dunque una diffusa propensione all’autogestione misurata, che si salda con la convinzione della delicatezza e della strategicità del ruolo dei farmaci. Gli stessi cittadini evidenziano la necessità di cautela nell’acquisto: è il 56,6 per cento che, pur favorevole ad un allargamento dei soggetti preposti alla vendita dei farmaci, ritiene essenziale la presenza di un esperto, mentre è il 30,4 per cento a pensare che i farmaci debbano essere venduti esclusivamente in farmacia. Il rischio della normalizzazione del rapporto con le medicine è “uno sviluppo perverso, in una sorta di logica da ‘eccesso’ che dalla rassicurazione può arrivare alla dipendenza: tuttavia è il 71,7 per cento a ritenere che il consumo eccessivo di farmaci sia imputabile all’ansia e all’idea che possano risolvere tutto, un dato che ancora una volta si inscrive nel percorso di responsabilizzazione individuale rispetto all’uso dei farmaci”.
Autore: Redazione FNOMCeO