Reggio Emilia: medici contro la violenza. Intervista a Brini e Frullini

“Segni parlanti, occhi che ascoltano” è il titolo di un seminario multidisciplinare promosso dall’Ordine dei medici di Reggio Emilia e dalla FNOMCeO per mettere in comune approcci medici, sociali e psicologici della violenza in genere. L’impianto del convegno, come dichiarato dal titolo, è quello della semeiotica: puntare all’emersione/prevenzione delle forme di violenza nei vari contesti della vita.

Insieme a Salvatore De Franco (presidente provinciale) e ad Amedeo Bianco (presidente nazionale); sono Maria Brini e Annarita Frullini, le driving force dell’evento e ci hanno così illustrato i lavori.

A Reggio Emilia il mondo medico e ordinistico ha deciso di accendere i riflettori sul tema della semeiotica della violenza. Ce ne volete illustrare il motivo?
Maria Brini: "Certo questa attenzione è dovuta alla crescente presenza femminile nella professione medica, ai contatti storici con le donne di altre professione, alla consapevolezza crescente che gli effetti della violenza siano anche un problema sanitario. Il convegno FNOMCeO vede il confronto di donne e istituzioni, le istanze dell’Osservatorio, ed è stato reso possibile grazie all’impegno della Federazione, in particolare di Amedeo Bianco e di Salvatore De Franco, con il contributo importante di Patrizio Schinco che da Torino, supportato dal suo gruppo di lavoro ordinistico, è stato per noi punto di riferimento essenziale.
Abbiamo voluto sottolineare qui l’importanza di una semeiotica capace di leggere negli occhi, ascoltare e interpretare segni evidenti e segni nascosti, da paura, vergogna, solitudine e perdita di fiducia sia in se stessi sia in quelli in cui ponevamo fiducia e amore. La semeiotica che avvicina il medico al paziente, richiede ascolto, racconto ,vicinanza prende e dà ricchezze nuove per ambedue. Dal convegno proporremo cornici di raccomandazioni al mondo medico e a quello politico sapendo che gli atti di violenza colpiscono prevalentemente le donne, ma riguardano anche uomini, bambini, persone fragili ed emarginate".

Il corpus dei relatori e degli argomenti in agenda spazia dall’etica alla psicopatologia, implicitamente volete sottolineare la necessità di un approccio multidisciplinare a quello che il Lancet ha definito una “piaga globale”?
Maria Brini: "La lotta alla violenza non può che essere affrontata da tanti saperi messi in sinergia.
Le tante figure professionali devono essere preparate e pronte per cogliere i segni e i messaggi, ognuno deve fare la sua parte come il piccolo colibrì della favola africana che porta una goccia d’acqua per spegnere l’incendio della foresta, con la stessa motivazione. Ma come ormai tutti sappiamo è essenziale la sinergia tra professionisti della salute, tra le forze dell’ordine, la magistratura, le istituzioni di volontariato, le case di accoglienza delle vittime di violenza, il supporto di psicologi, sociologi, gli ambienti di lavoro, il nucleo che circonda la vittima nei suoi ambiti della vita sociale, amicale che devono dare sostegno e forza. E non finisce: le case, le città, le piazze devono essere pensate per garantire sicurezza e le donne devono essere garantite nei loro diritti anche di tipo economico-finanziario".

Avete voluto anche dare spazio alla riflessione sui "costi sociali" della violenza. Come mai questa scelta insolita?
Annarita Frullini: "Vanno considerati insieme costi umani e conseguenze economiche e sociali della violenza. I costi finanziari immediati per il sistema superano i due miliardi d’euro l’anno. S’ipotizzano altri 15 miliardi di euro come ricaduta attraverso i moltiplicatori economici e sociali.
La somma risultante è di miliardi di euro, a fronte di investimenti in prevenzione e contrasto alla violenza ben al di sotto dei 10 milioni di euro.
Possiamo ipotizzare in futuro anche altri costi per lo stato italiano costretto a indennizzi economiche per i danni non patrimoniali subiti da vittime. Vi sono, infatti alcune sentenze della Corte Europea di Strasburgo che hanno ritenuto gli Stati responsabili di inerzia o inefficienza nell’applicazione di misure di tutela effettiva verso le donne vittime di violenza. La Corte europea considera la violenza di genere come una violazione dei diritti umani ed ostacolo al pieno sviluppo della personalità e delle capacità umane e ritiene necessario che gli Stati adottino azioni preventive volte a proteggere le vittime di violenza, oltre che reagire, con misure repressive, alle violenze già commesse, per tutelare sia gli interessi della vittima sia quelli più generali della collettività".

Quindi si afferma una visione della violenza come mancata tutela di diritti?
Annarita Frullini: "La violenza tra membri di una famiglia o di una relazione intima non è un affare privato, non ha età, censo, posizione sociale. È sufficiente che “vessazioni abituali del colpevole costringano la vittima in una condizione di disagio e di sofferenza” per creare nei percorsi di vita, situazioni in cui i margini di autonomia possono essere ridotti e nelle quali la potenziale vittima non ha altre possibilità se non quella di sottostare a quelle determinate condizioni. Sarà forse necessario inserire nel nuovo codice deontologico il concetto di vulnerabilità oggettiva, connessa al reato a prescindere dalle qualità soggettive della vittima".

Quale può essere il ruolo della formazione in ambito medico su questo scenario?
Annarita Frullini: "Esiste, anche se è poco nota, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, Cedaw, documento del 1979 sottoscritto da 190 paesi, unico trattato internazionale interamente dedicato alla donna per la persistenza, in tutto il mondo, di discriminazioni. Se la violenza, la continuità della violenza domestica (IPV, Intimate Partner Violence) ha molte forme sommerse, i medici possono "facilitare" l’emersione del fenomeno collaborando con istituzioni e associazioni. Inoltre anamnesi di testimonianze e quanto refertato diventano quella documentazione necessaria per garantire adeguati procedimenti giudiziari".

Quale può essere il contributo del mondo medico nella "prevenzione" degli atti violenti? Esiste una "cultura violenta" che può essere anticipata e combattuta anche nello studio medico? E se si: come?
Maria Brini: "Per combattere la violenza bisogna innanzitutto riconoscerla come tale Sicuramente nello studio del medico si può fare molto per quanto riguarda la prevenzione, mentre i medici di pronto soccorso e della emergenza territoriale osservano un accaduto, forse anche con punti di vista che possono essere diversi tra loro. Anche su questo aspetto l’intreccio di fattori così complessi a ancora non ben conosciuti implica l’intervento di molte figure oltre al medico. Del resto il tema della prevenzione si affronta quando di una patologia si conoscono eziologia e patogenesi, credo che proprio nel Convegno sarà analizzata la “cultura violenta” e si ascolteranno azioni di prevenzione messe in campo da istituzioni che operano sul tema violenza.
Uno degli obiettivi principali che il Convegno si pone è anche quello di creare e rafforzare reti tra professioni, saperi, campi di attività diversi da mettere in campo per contrastare la “ piaga globale” della violenza. La Federazione e gli Ordini professionali possono essere momento di formazione e supporto perché non può esservi disinteresse verso questo argomento ed è necessario, senza inseguire emergenze, agire verso una prevenzione che porti a ruoli rispettosi e migliore relazione fra i sessi. Infine molto possono fare i medici, con altri operatori, perché gli uomini maltrattanti smettano di esserlo". 

Autore: Redazione FNOMCeO

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