“Un elemento nuovo si è aggiunto al patto terapeutico: Internet. E nulla oggi può più essere come prima nel rapporto tra medico e paziente”. Con queste parole, Salvino Leone ha “raggelato” la platea del recente convegno di Padova sul “pensare per la professione”. Un concetto non nuovo, che però forse per la prima volta ha sottolineato con chiarezza disarmante come le nuove tecnologie e la comunicazione invasiva stiano ormai richiedendo una riflessione antropologica senza limiti anche in ambito di cura e di salute. Salvino Leone, 55 anni, ginecologo, fondatore e direttore dell’Istituto Siciliano di Bioetica, ha accettato di approfondire la provocazione padovana in questa intervista.
Al Convegno di Padova lei ha introdotto un tema particolarmente stimolante: l’alleanza terapeutica ormai è un menage a trois in cui si è inserito "internet". Ci vuole spiegare meglio a cosa si riferisce?
«Il rapporto medico-paziente si è sviluppato nell’arco dei secoli in senso essenzialmente “duale”, cioè come relazione comunicativa ed empatica tra il professionista detentore del “sapere” e il malato “fruitore” delle sue competenze. Si è sviluppata anche una copiosa letteratura sulle modalità più opportune di tale rapporto e persino una scienza detta “logotecnica clinica”. A tali abilità comunicative apparteneva anche l’attenzione nel comunicare la verità su una prognosi infausta, la riservatezza su malattie imbarazzanti come quelle sessuali o psichiatriche, la delicatezza di problemi etici come quelli relativi all’aborto, ecc. Oggi in questo rapporto esclusivo si è inserito un “terzo incomodo” cioè Internet. La tranquillizzazione del paziente su una malattia grave faticosamente conquistata nel dialogo viene immediatamente smontata dalle notizie che il paziente reperisce in rete, l’accettazione di una patologia genetica viene drammaticamente violentata dalle immagini della malattia, l’assicurazione che il proprio partner non ha contratto “altrove” una malattia sessuale viene invalidata dal dato acquisito in rete circa le modalità di trasmissione della stessa, l’assenza di una terapia efficace negata dai tanti forum in cui pazienti vari attestano di essere perfettamente guariti andando dal tal medico o presso il tal centro, ecc».
Per scendere sul piano pratico: dopo un consulto, una sua paziente torna a casa e naviga su web; cerca e trova indicazioni differenti rispetto a quelle che lei ha proposto in ambulatorio: come è possibile recuperare la fiducia di quella paziente? Quali possono essere le strategie, i comportamenti e gli atteggiamenti?
«Tutto dipende dal grado di fiducia che il medico è riuscito a conquistarsi. Di fronte a una forte relazione fiduciaria il paziente chiederà sempre una validazione al suo medico di quanto acquisito su Internet. Ma se manca tale rapporto allora la voce del suo medico sarà una delle tante e, spesso, neanche la più autorevole. Non dobbiamo dimenticare infatti anche alcune componenti emotive che giocano un ruolo non indifferente. Ad esempio l’immagine di uno studio bello e ben attrezzato o titoli professionali altisonanti. In tal senso proprio la presenza di Internet può costituire una vera “sfida” per rilanciare con ancora maggior forza l’esigenza di un forte rapporto di fiducia tra medico e paziente. Ovviamente tale fiducia non potrà basarsi solo su sorrisi, belle parole e pacche sulle spalle ma dovrà fondarsi su una altissima qualificazione professionale».
Per non esser manichei: ci possono essere elementi "positivi" di questa nuova visione del patto terapeutico?
«Certamente ci sono elementi positivi e Internet in quanto tale non solo non va demonizzato ma va utilizzato al meglio. Si tratta di una risorsa preziosissima in mano al medico e al paziente. E’ solo il suo abuso o, per meglio dire, l’uso distorto che va condannato. Internet consente di accedere a siti web di Istituzioni specializzate nella cura di una data malattia reperendo le informazioni necessarie per accedervi, consente di conoscere associazioni di malati, di collegarsi e scambiarsi informazioni utili, di accedere a siti web personali dei vari professionisti, di ricevere informazioni inerenti problemi di sanità pubblica, di ottenere ulteriori chiarimenti e arricchimenti conoscitivi che la brevità della visita non consente, di prenotare visite ed esami in tempo reale, ecc».
Se è vero che da più parti ci si riferisce all’uso, all’universalità e all’invadenza del Web come al raggiungimento di una nuova fase antropologica, come è possibile che l’ars medica "utilizzi" invece che essere "utilizzata" da internet? Come passare dal passivo all’attivo?
«Ricordando sempre che qualsiasi strumento tecnologico (e Internet è uno di questi e non sarà l’ultimo) è a servizio dell’uomo. Non può e non deve esercitare alcun dominio. Come lei dice, appunto, si tratta di una nuova fase “antropologica” cioè che riguarda l’anthropos, l’uomo. E’ l’uomo a doverlo utilizzare e anche a fissare le regole della sua fruizione, non viceversa. Un mio collega mi diceva scherzando, dopo ore passate sul monitor, che adesso il computer “mi avrebbe spento” ed io potevo andare a casa. E’ un rischio reale quello di farsi dominare dalla macchina. Basti vedere quello che succede con i giovani che trascorrono tutto il loro tempo, anche quando conversano con altri, a digitare velocissimamente SMS sul proprio cellulare o ai ragazzini pietrificati per ore e ore non più davanti alla playstation. Le dipendenze tecnologiche sono ormai annoverate tra le nuove dipendenze e questo non riguarda solo i videogiochi o facebook ma anche l’uso di Internet».
Crede in questo senso che ci siano differenze sostanziali tra la situazione italiana, situazione europea e situazione nordamericana?
«Non ho dati aggiornati, ma non credo. La globalizzazione, anche informatica, ormai ha portato a una diffusione di stili e comportamenti abbastanza ubiquitaria. D’alta parte il linguaggio informatico e le risorse utilizzate sono ormai universali. Basti pensare a Google o ai diversi linguaggi in uso soprattutto tra i giovani. Quello che cambia, però, è il background antropologico-culturale in cui l’uso del computer si pone. Per cui la stessa risorsa informatica utilizzata da un paziente italiano o da uno canadese acquista un diverso significato perché diverso è il rapporto che i due hanno col medico, col servizio sanitario, con le modalità di pagamento delle prestazioni, con la considerazione sociale del medico, con le strutture sanitarie, con le politiche socio-asssitenziali, ecc».
Ormai si parla di "nativi digitali": i giovani nati a partire dal ’93-’95 non concepiscono un mondo senza web. Questo è valido anche per gli studenti di medicina. Ciò significa che il tema "web e medicina" li tocca più da vicino. Quale può essere una visione corretta e non caotica – demonizzante o idealizzante – di questa relazione?
«Internet non è un nemico del medico né del paziente ma un loro potente alleato. Un tempo nelle Facoltà di Medicina neanche si poneva il problema di studiare una lingua straniera, oggi sì. Poi sono venute le scienze statistiche di cui i medici (tranne forse gli epidemiologi) erano del tutto digiuni. Recentemente ma solo sommariamente si sono accodate anche alcune essenziali nozioni di economia e, per alcuni anche di management. Ma questo è indice della vitalità della medicina che essendo una scienza per l’uomo e sull’uomo cammina con i tempi. Oggi al medico si chiedono anche competenze informatiche, sia pure minimali per essere quantomeno un “terminal user” del computer. Indubbiamente così come i medici di un’età avanzata hanno tuttora qualche difficoltà col padroneggiare l’inglese perché la loro generazione non è cresciuta nella dimestichezza con tale approccio linguistico esiste oggi un’ampia fascia di “analfabetismo informatico” soprattutto tra la fascia dei professionisti over 50 che spesso affermano “di non capirne niente di computer”. E’ il gap nei confronti dei “nativi digitali” che non si riuscirà mai a colmare del tutto ma che dovrebbe almeno in parte rientrare, quantomeno per l’utilizzazione più elementare di alcune risorse (email, videoscrittura, ricerca per parole chiave, apertura di siti web…)».
A Padova lei ha parlato di “high tech, high touch”: ci può definire meglio questo nuovo stile di approccio alla scienza medica?
«Si tratta di un’espressione suggestiva che, come tutti gli slogan, va riempita di contenuto. E’ una voluta assonanza tra quello che già c’è e si incrementerà cioè l’“high tech”, l’alta tecnologia e quello che dovrà esserci, cioè un alto “tocco”, la capacità di continuare ad avere un rapporto diretto, empatico, corporeo col paziente. La medicina degli ultimi decenni si è allontana sempre più dalla fisicità del malato. Dal medico che appoggiava il suo freddo orecchio sul torace a quello che guarda solo un esame di laboratorio o una PET i due protagonisti della relazioni si sono estraneizzati sempre di più. E, molte volte, il paziente neanche conosce il medico responsabile della sua diagnosi (come avviene, ad esempio nei confronti di chi si limita a refertare un esame fatto da un tecnico senza aver mai visto il paziente). A fronte del rischio di disumanizzazione che tutto questo comporta occorre allora recuperare in pieno l’antica humanitas del medico. Il senso dello slogan è proprio quello di comprendere come i due termini non si debbano ritenere antitetici ma sinergici. In tal senso riuscire a coniugare una tecnologia sempre più elevata con una umanità relazionale altrettanto elevata sarà la vera sfida del futuro sanitario».
Autore: Redazione FNOMCeO