05 NOV – Gentile Direttore,
la violenza è sempre esistita e non è affatto vero che sia in aumento: in aumento è la percezione che abbiamo di essa perché è cresciuta la consapevolezza del diritto all’incolumità della propria vita. Questo uno dei punti emersi nel primo del nuovo ciclo dei mercoledì filosofici che la Fondazione Ars Medica dell’OMCeO Veneziano ha proposto sul tema della violenza sui medici.
Le società passate sono state società molto violente ma se ne aveva una percezione alterata dal fatto che molti soprusi venivano sottaciuti, specie quelli che si perpetravano dentro le famiglie e che nessuno osava rivelare (pedofilia, maltrattamenti su donne e bambini), senza contare poi che alcune forme di violenza erano addirittura legalizzate (si pensi ad esempio al delitto d’onore abolito solo nel 1981).
Cose che oggi ci sembrano abominevoli erano in qualche modo accettate fino a non molto tempo fa.
Bene quindi che la nostra società oggi non accetti la violenza e che desideri “espellerla” dal consesso civile.
Anche la violenza sui medici non è un fatto nuovo. Fin dall’antichità se ne trova traccia: «Se un medico con il bisturi causa una grave ferita allo schiavo di un uomo libero e lo uccide, il medico deve sostituire lo schiavo con un altro. Se cura un uomo libero e gli causa una ferita mortale, o se ha aperto un ascesso e l’uomo libero resta cieco, gli si taglieranno le mani» si legge nel codice di Hammurabi.
L’avvento della medicina moderna con i suoi successi ha di fatto circondato il medico di un’aurea salvifica che ha di certo contribuito a ridurre in un passato recente i fenomeni di aggressività contro i medici. Tuttavia oggi il fenomeno della violenza sui medici appare pericolosamente in aumento e non manca giorno che i mezzi di comunicazione non ce ne diano notizia.
Le professioni mediche erano “trattate con rispetto” nelle società tradizionali, ma l’arrivo della medicina tecnologica ha prodotto una promessa di infallibilità e un desiderio diffuso di immortalità che cozza contro gli inevitabili fallimenti e la caducità della vita.
Una fiducia illimitata nella medicina che grazie allo sviluppo tecnologico può “sconfiggere” la morte, porta a ritenere “ingiustificata” anche la morte di un novantenne per la cui dipartita non si può che accusare i medici.
Alla base della violenza fisica o verbale, c’è un meccanismo di frustrazione per un’aspettativa che non viene soddisfatta.
Questa frustrazione si verifica sia per desideri spesso irrealizzabili (voglio che tu medico compia il “miracolo” di guarirmi o guarire il mio congiunto ormai terminale dal momento che la medicina può tutto), sia per aspettative più concrete (per esempio sono costretto ad attendere ore al Pronto Soccorso per essere ricevuto e sto accumulando ansia e paura senza che nessuno mi dia ascolto).
Nel primo caso c’è bisogno di operare un cambiamento culturale, nel secondo caso basterebbe una organizzazione del lavoro diversa.
Se le aspettative sono fattibili e realizzabili è chiaro che le soluzioni ci appaiono più alla nostra portata. E’ necessario lavorare ad una organizzazione del lavoro che permetta al medico di avere tempo per l’ascolto e la comunicazione, garantire più personale per esempio nei pronto soccorso per accogliere le persone o più medici che lavorino a ridurre le liste di attesa.
Bisogna cioè creare delle condizioni per cui le attese di salute delle persone possano venire nei limati del possibile, soddisfatte. A questo si può aggiungere una più adeguata sorveglianza nei posti dei lavori (non quindi lasciare le guardie mediche in posti isolati e senza nessun controllo) e prevedere severe pene per chi aggredisce il medico in quanto “funzionario” dello Stato. Tutto questo non è facile ma rientra in quello che è possibile realizzare se c’è una volontà politica di farlo ed è quanto la FNOMCeO e le varie organizzazioni sindacali stanno tentando di ottenere.
Molto più difficile è lavorare sull’idea di infallibilità della medicina, che forse in parte abbiamo contribuito a creare nel tempo. Si tratta infatti di operare un cambiamento culturale che deve coinvolgere tutti, medici e cittadini, e che richiede tempi lunghi, ma che appare sempre più necessario se si vuole toccare il cuore del problema .
Tanti anni fa quando ancora facevo la guardia medica c’era una paziente diabetica che era un po’ l’incubo di noi giovani medici: la sera si ingozzava di dolci e poi trovando la glicemia alle stelle chiamava noi “guardiani” perché le risolvessimo il problema.
La signora in questione aveva da una parte una fiducia illimitata nella medicina e dall’altra una assoluta mancanza di responsabilità personale.
Questa “paziente” è un po’ l’emblema della situazione culturale odierna.
A fronte di un “diritto” incondizionato alla vita che la medicina deve garantire , il cittadino -paziente non ritiene di aver alcun obbligo di mettere in atto comportamenti adeguati per mantenere il suo stato di salute (per esempio adottando stili di vita appropriati e seguendo le prescrizioni del medico) né responsabilità nello spreco di risorse che sono di tutti .
Nella mia attività quotidiana di medico di famiglia noto frequentemente questi comportamenti :
– mi ammalo spesso di bronchite, sono un forte fumatore: il medico ha il dovere di curarmi ma non io il dovere di smettere di fumare
– ho la polmonite ma fra due giorni ho una vacanza già pagata: il medico mi deve curare presto e bene perché io comunque in vacanza ci devo andare
– l’ortopedico mi ha già detto che mi serve la protesi del ginocchio ma io ho bisogno di fare la risonanza magnetica per esserne certo anche se rappresenta un consumo di risorse per altri.
È necessario lavorare per aumentare il livello di consapevolezza e di responsabilità fra i cittadini chiamati ad usufruire del servizio sanitario, non solo come base per una riduzione della spesa sanitaria ma anche per abbassare il livello di conflittualità tra medici e pazienti.
Non posso come medico rischiare di essere assalita anche solo verbalmente ogni volta che devo dire di no all’esecuzione di un esame inappropriato , per non riuscire a guarire una polmonite in due giorni o per non riuscire a salvare il novantenne scompensato che però il giorno prima stava bene…
Serve la consapevolezza del limite: siamo essere mortali e la morte è un limite invalicabile ; siamo esseri fallaci e l’errore fa parte dell’uomo. Recuperare il senso del limite gioverebbe molto a questa società sempre più centrata sull’“io” sui diritti del singolo e poco sul valore della collettività , sul senso della comunità. Esigere troppo per sé porta inevitabilmente a sottrarre alla collettività e non solo … comportamenti inadeguati del singolo possono nuocere agli altri : pensiamo al fumo, all’inquinamento.
È necessario un patto nuovo tra chi cura e chi usufruisce delle cure; se è vero che “il medico rappresenta nella nostra società colui che garantisce i diritti dei cittadini, il diritto alla salute e all’autodeterminazione”, come dice ben il presidente Anelli, è necessario che il cittadino aumenti la cognizione dei propri doveri e responsabilità nella consapevolezza che remiamo tutti verso la stessa direzione e che il benessere e l’incolumità del medico è ragione della certezza del diritto alla salute del paziente.
“E poi la vita chi te la salva?”
Ornella Mancin
Medico di famiglia
Presidente Fondazione Ars Medica
OMCeO Venezia
Pubblicato su Quotidiano Sanità
Autore: Redazione