Strategie anti no vax: comunicare correttamente ma in modo ritenuto affidabile

Gli ultimi dati rilevati in Italia sulle vaccinazioni infantili parlano di un incremento netto di questa pratica medico-sanitaria, soprattutto fra i nati negli anni 2011-2015. Il recente coinvolgimento della scuola nel fare osservare tale obbligo continua tuttavia a suscitare nella popolazione, dubbi, polemiche e prese di posizione apertamente contrarie, puntualmente riportate dalla stampa. I conteggi sembrano tuttavia dare ragione a chi ha recentemente articolato in forma sempre meno aggirabile l’obbligo della vaccinazione infantile. L’Iss ha infatti comunicato ufficialmente “il raggiungimento dell’obiettivo del 95% per l’esavalente, e un notevole aumento delle coperture per il morbillo, intorno al 93%”. Questi dati permettono di parlare di acquisizione dell’immunità di gregge, non ancora raggiunta però nei confronti del morbillo.

Al di là dell’esistenza, preoccupante, di movimenti d’opinione dichiaratamente “no vax” collegati tra loro a livello internazionale, è innegabile come la pratica vaccinale da eseguire nei minori generi ancora paure, perplessità e interrogativi che devono trovare risposte adeguate. Se non fosse così non si spiegherebbe il risultato composito dell’inchiesta sanitaria “Eurosurveillance 2012”, anno in cui si evidenzia che la cultura diffusa della vaccinazione è entrata in crisi. I dati di quello studio (http://www.eurosurveillance.org/content/10.2807/ese.17.22.20183-en) affermano in sintesi che in 15 Paesi europei è stata possibile una copertura ottimale senza adottare l’obbligatorietà della vaccinazione, mentre negli altri almeno una è obbligatoriamente sempre compresa nel programma di immunizzazione infantile adottato. In Germania, poi, pur non sanzionando la mancata vaccinazione, è indispensabile il certificato rilasciato dall’autorità sanitaria dopo l’avvenuta pratica di immunizzazione: una modalità adottata anche da Usa e Canada.

È evidente che le “sollecitazioni” per tenere alta la guardia contro le malattie infettive prevenibili in modo efficace non possono che passare attraverso pacchetti di imposizioni indotte per legge o attraverso campagne informative realmente efficaci. Una o l’altra delle due possibilità operative richiedono però non soltanto la semplice conoscenza dei dati di copertura vaccinale. È infatti indispensabile sapere almeno cosa sanno i cittadini della pratica vaccinale, cosa pensano in proposito e come hanno acquisito le conoscenze in materia. Senza la messa in campo di questi tre passaggi preliminari qualsiasi pratica sanitaria svolta in questo ambito della prevenzione corre il rischio di fallire e in ultima istanza non può che comportare, alla fine, l’utilizzo della leva dell’obbligatorietà inaggirabile. La consapevolezza di questo fatto, soltanto in apparenza scontato, rappresenta non a caso oggi anche uno dei campi d’azione della ricerca anche umanistica e tracce di questo interesse sono reperibili con sempre maggior frequenza sulla letteratura internazionale. Due recenti articoli, uno pubblicato su Plose One (http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0191728) e l’altro su BMC Public Health (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5789742/) analizzano, il primo l’influenza dell’ideologia politica e la fiducia nella volontà di vaccinare e il secondo, le convinzioni, gli atteggiamenti e le ragioni di quanti in Europa rifiutano la pratica vaccinale.

Lo studio americano i cui risultati sono stati pubblicati da Plos One è stato realizzato dal Dipartimento di Politica e Filosofia dell’Università dell’Idaho. I ricercatori si sono attivati per cercare di comprendere meglio il crescente rifiuto di alcuni genitori di far vaccinare i propri figli iniziando l’analisi dalla valutazione delle strategie di sanità pubblica che si concentrano soltanto sull’aumento delle conoscenze e della consapevolezza sulla validità della pratica vaccinale in possesso della popolazione. La ricerca ha messo in luce che le decisioni sulla vaccinazione non si basano soltanto sulla conoscenza dei rischi, dei costi e dei benefici di questa pratica medica. Il processo decisionale individuale che porta ad accettare la vaccinazione coinvolge molti altri fattori (emozionali, culturali, religiosi, ideologici) che si acquisiscono nel contesto socio-politico in cui si vive.

Questa ricerca, che ha utilizzato Internet come supporto operativo, dimostra che tra i fattori condizionanti di natura extra medico-sanitaria è proprio l’ideologia a giocare un ruolo predominante nel determinare, in una sorta di effetto a cascata, gli atteggiamenti favorevoli o contrari alla pratica vaccinale. La variabile ideologica può essere addirittura considerata un indicatore predittivo nell’acquisire o meno la fiducia negli esperti medici governativi che propongono la pratica medica per l’immunizzazione.

Il secondo studio nasce invece da una precisa “storica” constatazione. Nonostante l’efficacia dei programmi nazionali di vaccinazione in Europa, alcuni gruppi di popolazione non sono vaccinati o lo sono in maniera incompleta a causa dell’adesione a credenze religiose o/e ideologiche. E proprio in questi gruppi sociali cresce il rischio che si sviluppino focolai di malattie infettive prevenibili con un vaccino.

La ricerca è stata messa in campo per cercare di ottenere informazioni sui fattori relativi al rifiuto della pratica vaccinale nei gruppi di non vaccinati (in inglese UVG), nel tentativo di individuare modalità comunicative, rispettose nei confronti di credenze ideologico-etico-politiche sedimentate, ma in grado di far aumentare il livello di immunizzazione verso le malattie infettive prevenibili. Per questo sono stati coinvolti gruppi sociali europei di non-vaccinati o sotto-vaccinati nei quali, a partire dal 1950, si erano registrati focolai di malattie infettive prevenibili con la vaccinazione.

I ricercatori hanno passato al setaccio i contenuti di MEDLINE, Database EMBASE e PsycINFO realizzando due revisioni sistematiche della letteratura. Per la prima sono stati selezionati studi che avevano descritto in Europa un gruppo nel quale si era registrato un focolaio infettivo o una copertura vaccinale bassa per una singola malattia evitabile; per la seconda revisione sistematica sono stati selezionati invece gli studi che hanno descritto i possibili fattori patologici associati alla non vaccinazione in questi gruppi.

L’attenzione dei ricercatori si è concentrata su 48 articoli su 606 per la prima revisione e su 13 articoli su 406 per la seconda. Inoltre sono stati identificati cinque gruppi UVG: comunità protestanti ortodosse, antroposofiche, rom, ebraiche ortodosse e alcune comunità non stanziali irlandesi.

All’interno di ogni gruppo sociale preso in esame, si è registrata una varietà condivisa di credenze e obiezioni alla vaccinazione e molte di queste credenze si è visto che sono condivise da più gruppi sociali, anche in assenza di rapporti culturali diretti tra loro.

I ricercatori sono convinti che le strategie di comunicazione ritenute idonee a modificare l’adesione verso la pratica vaccinale, debbano passare attraverso una lunga e costante

opera di educazione attuata da una fonte considerata però attendibile. In altre parole non basta il passaggio di informazioni corrette sulla vaccinazione ma è necessario che il flusso informativo si articoli all’interno di una relazione interpersonale ritenuta affidabile.

Nel gruppo di rom e di irlandesi non stanziali i ricercatori presumono che l’adesione alla pratica vaccinale potrebbe già aumentare se venisse migliorata la possibilità di accesso all’assistenza sanitaria.

Fonte: www.torinomedica.com

Autore: Redazione

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