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Tecnologie digitali e salute: perché tanti progetti falliscono?

Perché tante tecnologie digitali, applicate all’ambito della salute, fanno promesse che poi non sono in grado di mantenere? Secondo un articolo pubblicato dal blog della Healthcare Leadership Academy (vedi) i motivi si potrebbero individuare con buona approssimazione, ricavandone preziosi correttivi, ma la ricerca di settore non sembra così interessata a imparare dai propri errori (vedi; l’articolo è la sintesi di uno studio pubblicato sul Journal of Medical Internet Research che si può leggere integralmente qui).

La risposta alla domanda, scrive l’autrice di articolo e studio (Trisha Greenhalgh, docente di Scienze della salute e cure primarie presso il Green Templeton College di Oxford), è stata finora o del tutto elusa oppure affrontata in termini molto generici. La bontà di questo tipo di tecnologie, infatti, tende a essere verificata per mezzo di trial controllati randomizzati, che non sono in grado di rispondere a dubbi puntuali e criticità di contesto, risultando in definitiva strumenti di verifica del tutto teorici o, nel migliore dei casi, validi per valutare circostanze di utilizzo molto circoscritte (per esempio la funzionalità rispetto a un numero di utenti limitato e solo in condizioni controllate). La maggior parte degli studi, poi, trascura l’analisi delle cause per cui lo strumento tecnologico o non viene adottato oppure viene abbandonato. Pochissimi studi prendono in considerazione il contesto organizzativo, oltre a quello individuale. In sostanza, rileva Greenhalgh, i ricercatori non raccolgono i dati che servirebbero a implementare l’uso delle tecnologie nel concreto contesto d’uso, limitando le proprie osservazioni a verifiche su piccola scala e a breve termine.

Negli ultimi quindici anni, però, queste lacune sono state un po’ per volta affrontate e oggi, sostiene l’articolo, la letteratura di settore offre sufficienti evidenze empiriche per condurre analisi mutlidimensionali più approfondite. A dimostrare i passi avanti, l’autrice presenta il modello di valutazione messo a punto dal proprio gruppo di lavoro. Si tratta di una griglia valutativa detta NASSS (dal nome dei parametri che si propone di valutare: nonadoption, abandonment, scale-up, spread, sustainability) e suddivisa in sette domini: la patologia per cui lo strumento tecnologico è stato pensato; le caratteristiche dello strumento tecnologico; i motivi per cui si ritiene opportuno svilupparlo; gli utenti a cui è rivolto (pazienti, operatori, caregiver); il contesto organizzativo all’interno del quale verrà usato; il sistema istituzionale e normativo di riferimento; e infine la previsione di utilizzo dello strumento nel corso del tempo. Ciascuno di questi domini può essere semplice (costituito da pochi elementi e prevedibile), complicato (costituito da più componenti ma in relazioni reciproche stabili) oppure complesso (costituito da più componenti, in relazione dinamica e non prevedibile). Il principio su cui si basa la valutazione è in ogni caso elementare: maggiore è il numero di domini semplici e maggiore è la probabilità di successo della tecnologia; maggiore è il numero di domini complessi, minore la probabilità di successo.

Il NASSS è stato finora utilizzato per valutare le consulenze mediche a distanza, gli strumenti di orientamento GPS per i pazienti affetti da demenza, i kit sanitari per i pazienti cardiopatici e una molteplicità di altre tecnologie sanitarie.

Alle riflessioni di Greenhalgh dedica ampio spazio un articolo di Nova di Cristina Cenci (vedi), che presenta il modello valutativo a partire da una nozione familiare a tutti (esclusi forse i millenials): la “fatica digitale”, e cioè la paradossale difficoltà di gestire tecnologie che, ideate per semplificare le cose, alla fine dei conti le complicano. Secondo Cenci “sicuramente il modello proposto è articolato e consente di misurare l’introduzione di una nuova tecnologia non solo con gli aspetti più strettamente tecnici o clinici ma anche con le dimensioni talvolta nascoste di un’organizzazione. Una nuova tecnologia può infatti mettere in discussione modelli culturali impliciti, gerarchie formali ma anche informali, routine che sulla carta non esistono ma che in realtà regolano attività chiave delle strutture. Così come non poco rilevanti per la scalabilità e la diffusione nel tempo è la stima da subito dei costi e dei fondi disponibili per coprirli”.

Sempre secondo Cenci, “disporre di modelli multidimensionali è il primo passo per introdurre l’innovazione digitale in sanità”: la valutazione precisa dei punti deboli consentirebbe infatti di porvi rimedio, riducendo quella “fatica digitale” che (“individuale ma anche sistemica”) rischia di rendere le tecnologie utili solo sulla carta.

Di Sara Boggio


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Autore: Redazione FNOMCeO

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