• Home
  • News
  • Tra violenza ed etica: le “storie maledette” di Franca Leosini

Tra violenza ed etica: le “storie maledette” di Franca Leosini

A cura di Rosa Revellino

Franca Leosini, giornalista che da sempre tiene in scacco il mondo della cronaca nera e giudiziaria. Buona parte della storia del crimine è passata dalle sue interviste: Angelo Izzo, Pino Pelosi, Rudy Guede e Luca Varani. Sono solo alcuni dei casi da lei seguiti in anni di carriera, iniziata per l’Espresso, Il Tempo, Cosmopolitan fino ad arrivare al format di Ombre sul giallo e al famoso Storie Maledette.
Molte storie, molte narrazioni, ed altrettanti processi, alcuni dei quali sono stati riaperti grazie ad una scrupolosa indagine giornalistica. La sua è una ricerca di verità umana e non solo giudiziaria, perché i processi giudicano i gesti, ma c’è una verità dell’anima a cui difficilmente si accede.
Le sue interviste, che sarebbe meglio definire narrazioni giornalistiche, segnano la storia del giornalismo creando un genere unico che attinge molto dalla postura dell’indagine antropologica e psicanalitica. Non c’è finzione nel suo discorso, anche se studiato nei minimi dettagli, dalle carte dei processi, dall’incontro con i suoi interlocutori, perché proprio nell’incontro con l’altro si saldano etica e sensibilità che rendono il giornalista un fragile indagatore, talvolta ingozzato dal dolore.
 “Io però non posso cammuffarmi – ha detto Franca Leosini alla redazione – sarei un falso in atto pubblico”.

Franca Leosini rappresenta per gli addetti ai lavori e non solo un tipo di giornalismo etico, equilibrato, poco urlato. È ancora possibile oggi, e se sì, come si costruisce un’informazione corretta su fatti di violenza?
Cominciamo con il ricordare che il giornalismo è informazione, noi giornalisti non possiamo sottrarci alla notizia, quando spesso sono i Capi di Stato a dare le notizie senza filtri, senza una sapiente mediazione. La violenza è però oggi sempre di più un clima e non un semplice gesto o un fatto di cronaca. Cioè viviamo in una sorta di psicopatia quotidiana, contagiosa, che va oltre il delitto quotidiano, il fatto privato, e investe tutta la società in modo diretto e frontale. Per tale ragione siamo diventati un po’ tutti sudditi della paura, anche di raccontare. Penso che uno dei principi fondamentali del nostro mestiere, per come si configura oggi, sia andare alla radice dei fatti: tra i limiti della cronaca contemporanea c’è il fatto di agganciarsi ai colori della notizia trascurando i motivi, cioè non ricostruendo le vicende in modo articolato senza sminuirne la complessità narrativa. Questo compito, proprio del giornalismo di inchiesta, richiede molto tempo che spesso non è concesso ai colleghi perché come sappiamo tutta l’informazione è bruciata in pochi secondi. Allora il problema è appunto trovare un equilibrio che non abbia toni ovattati o finti e non indulga nella compiacenza del fatto violento per non creare allarmismi che sono comunque sempre nocivi per una corretta informazione. Credo che lo sforzo del giornalismo di oggi sia quello di impostare il più possibile un racconto onesto, aderente ai fatti, con toni equilibrati che non vadano nella direzione di una cronaca morbosa, ammiccante ad una sorta di bulimia del dolore. Anche perché la violenza diffusa e capillare è spesso una violenza innominata, che nasce da un sofferto anonimato. Ci sono personaggi che, reclutati da una condizione di emarginazione personale, acquisiscono identità proprio nel gesto violento, cioè solo tramite la violenza agita sono nominati, riconosciuti. In altri termini penso che si debba tenere conto del fatto che la violenza abbia molto a che fare con la dimensione identitaria: agire violenza significa spesso acquisire un’identità, per quanto tragica e incomprensibile.

Le due facce della violenza: agire e subire. È possibile raccontarle?
Nella mia attività di autore di Storie Maledette per Rai 3, tratto sempre casi che non rientrano mai nella categoria “professionisti del crimine”. Si tratta di persone comuni che cadono, ad un certo punto, nel vuoto di una maledetta storia. Cioè mettono in atto l’orrore di un gesto che non somiglia alla loro quotidianità. Ma quasi sempre, e sottolineo quasi, queste persone hanno fatto un percorso di revisione del gesto, di responsabilità dolorosa, e spesso lo hanno fatto proprio in atto di narrazione.
Per esempio il caso Varani, segna un’epoca, portando in luce un gesto crudele che sembra non appartenere al codice violento della tradizione europea: ha dato mandato di sfigurare con l’acido il volto di una giovane donna, Lucia Annibali, la sua fidanzata. Con il suo atto ha sfregiato non solo un volto, ma un’anima in modo irreversibile. Una condanna a vita per entrambi. Ricordo che un’interrogazione parlamentare ha tentato di bloccare questa intervista ma la Rai ha deciso di andare in onda. Varani infatti non aveva mai parlato prima ma nel corso del confronto giornalistico ha confessato: è stato un momento drammatico perché ha ammesso, nell’atto di parola, la consapevolezza del suo gesto. Alcuni interlocutori, in questi anni, hanno rifiutato la responsabilità del reato, ma hanno sempre fatto una revisione profonda dei fatti e della ineluttabilità e inemendabilità del corso di questi fatti. È nel confronto che avviene una presa d’atto, anche nella direzione della presa di coscienza. È nel confronto umano che si attivano le revisioni e le domande. Per tale ragione, quando ci si avvicina a questo tipo di indagine giornalistica, bisogna cercare di sapere tutto di una storia, non solo sul piano giuridico, ma anche etico, psicologico e linguistico perché è proprio nelle parole che si annida e si nasconde quella verità che cerchiamo, ma di fronte alla quale dobbiamo sapere che non possiamo capire tutto. Alla luce di questo noi giornalisti dobbiamo sapere che stiamo lavorando per la verità e non per una redditizia fiction e per nostro codice deontologico, ed etico, ci viene richiesto un grande rispetto di fronte al dolore, sia esso agito o subito.
Io lascio libero chi mi è di fronte di accedere alla verità per gradi, secondo il suo ritmo di consapevolezza. E non dimentico che nel gesto di una madre che affoga il figlio in una vasca da bagno può esserci un dolore tanto inesprimibile da essere mortale.
Quante volte mi sono sentita in quella vasca
.

Dire violenza per molti significa dire vita. Cosa è accaduto culturalmente?
Sartre diceva che non esistono vittime innocenti, ma sono sempre complici dei carnefici. È un’affermazione forte che però spiega in modo chiaro, e crudele, la piena responsabilità di chi ha sopportato troppo, per secoli. Per secoli la donna è stata complice di un sistema violento, perché per secoli ha accettato una violenza culturale, psicologica e sociale. Ed è in questo senso che il concetto di violenza va allargato. La violenza è anche soggiogare una donna, umiliarla, emarginarla e toglierle identità.
In più di un centinaio di Storie Maledette, Ombre sul giallo, e molti processi, mi sono resa conto di un dato di esperienza: il fenomeno della violenza sulle donne è molto più presente al Nord di quanto non sia presente al Sud. La lettura del Paese si potrebbe fare proprio attraverso lo studio dei delitti perché ci sono delle vicende di crimine e di delitti specifici del Nord, a differenza della vulgata che vedrebbe nel Sud la caratterizzazione di delitti per esempio più passionali, o così detti d’onore. Ci sono motivi di carattere culturale e sociale da tenere conto: innanzitutto al Nord la donna è stata sempre oggetto di trasgressione, nel corso di questo secolo, perché prima era schiava dal punto di vista economico, non potendosi mantenere, e poi lentamente è diventata sempre più indipendente potendo scegliere anche per il destino della coppia. Qui gli stereotipi sono stati più facilmente superati. Al Sud, devastato comunque da terribili vicende di violenza, ci sono ancora valori tradizionali che affondano le radici in una certa cultura della famiglia. La donna del Sud è come se avesse più confidenza col dolore, in una forma di accondiscendenza inerme che da sempre l’ha resa meno trasgressiva. Per fare un esempio un delitto come quello di Olindo e Rosa non si sarebbe mai verificato in una città del Sud, come Napoli, sfregiata da violenza terribile, ma dove persiste ancora la vicoleria, un certo tipo di solidarietà di quartiere, di vicinato.

Medici e giornalisti a confronto: sono entrambi interpreti di storie?
I medici hanno una responsabilità enorme, perché solo loro sono davvero in prima linea. Il loro elegante riserbo è affascinante, nell’equilibrio che spesso hanno tra raccontare e mitigare. Uno stile che attinge senza dubbio nella loro deontologia ma anche in una cifra umana, che credo propria solo di questa professione.
Ritengo che in ambito mediatico i medici parlino sempre troppo poco e di loro si parli troppo poco. Si sa sempre troppo poco di loro e invece dovrebbero avere una linea di rappresentazione molto più ampia e vissuta da parte di chi racconta e informa. Noi giornalisti non dovremmo dimenticare l’enorme responsabilità di questa categoria che spesso si occulta volutamente in un garbato silenzio, non per mancanza di coraggio, ma per una scelta precisa e motivata. Certo, giornalisti e medici sono simili nel dolore che assorbono, intercettano quasi sempre brandelli di anima che necessita di essere esplicitata, in modo diverso e con strumenti diversi, ma in questa prospettiva non siamo distanti. Lo siamo quando invece di trovare un linguaggio comune che, aggancia in rispetto e analisi documentata, mettiamo in cortocircuito le storie, per una esibizione del dolore che è a perdere. Per tale ragione noi giornalisti dovremmo parlare un po’ di più di questi professionisti che sono sì professionisti del dolore ma anche della speranza, per tutti noi. In questo Paese sempre più sfregiato proprio da violenza e precarietà.

(L’intervista è stata pubblicata su «Torino Medica», rivista dell’OMCeO di Torino che nel numero uscito a ottobre 2016 ha dedicato al tema della violenza un focus di approfondimento: vedi).

Autore: Redazione FNOMCeO

© 2023 - FNOMCeO All Rights Reserved. Via Ferdinando di Savoia, 1 00196 ROMA CF: 02340010582

Impostazioni dei Cookie.