VENEZIA 4: intervista a Salvatore Amato

L’Ufficio Stampa ha posto alcune domande anche a Salvatore Amato, presidente OMCeO di Palermo, che inaugurerà i lavori dell’Assemblea COMEM



Professor Amato, l’OMS, nell’analisi dei fattori determinanti per la salute, elenca quali prioritari quelli culturali. Come è possibile, allora, costruire una nuova figura di “Professionista sanitario dell’area mediterranea”, in presenza di un background così multietnico?


Per rispondere alla domanda è necessario capire perché l’OMS ha posto come prioritario il fattore culturale. Il tutto si basa su due pilastri fondamentali. Il primo è che la cultura influenza in maniera sostanziale la tipologia dell’espressione patologica. Il secondo è quello della forza terapeutica della relazione, che sembra essere stata trascurata negli ultimi tempi e che sicuramente influenza in modo decisivo il risultato terapeutico finale, soprattutto in campo multietnico.


Può farci qualche esempio?


La lingua anglosassone traduce la parola malattia con due termini: disease ed ilness: disease è ciò che dice il medico dopo la visita, ilness è ciò che sente e prova il malato. La medicina funziona quando c’è perfetta corrispondenza tra i due termini, altrimenti si corre il rischio, di fronte ad un mal di pancia dovuto ad infarto inferiore del cuore, di fare diagnosi di gastrite.


La corrispondenza è tanto più importante quando si confrontano culture diverse…


Sì. In campo multietnico bisogna considerare anche il livello culturale nell’espressione dei sintomi e recuperare la relazione medico-paziente che sopra ho definito “terapeutica” nel senso stretto del termine: se praticata la relazione è vera e propria terapia. Ciò, però, non è semplice come sembra ed i motivi sono diversi. I successi della biologia molecolare, della genetica e della tecnologia hanno dato e danno un grande contributo nella lotta contro le malattie ma hanno creato riduttivismo biologico, autonomia di giudizio e tecnicismo esasperato. La formazione universitaria ha favorito l’acquisizione per campi a discapito dell’approccio globale e soprattutto ha sancito la definitiva separazione tra medicina e filosofia.


Con quali conseguenze?
 
La prima conseguenza è l’instaurarsi del cosiddetto paradosso terapeutico: difficile e contraddittorio equilibrio tra oggettività ed empatia, tra distacco ed identificazione proprio perché la medicina contemporanea ha cancellato la globalità della persona a vantaggio della conoscenza approfondita delle singole parti del corpo.
La seconda è che la medicina è malata, il medico insoddisfatto, mentre gli infermieri abbandonano la professione. Si moltiplicano i dibattiti sulla non-sostenibilità economica, etica e politica della medicina attuale ed aumenta il numero di persone sane spaventate dai fattori di rischio che si sentono  abbandonate dalla medicina ufficiale. Dall’altro lato cresce il fatturato delle medicine alternative. 



E, in un’ottica multiculturale, quali sono i problemi?
 
In campo multietnico i problemi di differenza culturale nell’ottica della coppia relazionale medico autoctono-paziente migrante sono resi complessi dal fatto che si tratta di due aree culturali che non hanno raggiunto un equilibrio di transculturazione. Con due grandi miti: quello del migrante paziente ignorante ed infetto e, da parte del migrante, quello dell’Occidente eden tecnologico. Evidentemente tendono a conglobarsi in un’unica società multiculturale ma nella prima fase c’è un attrito, una frizione che comporta incomprensione, razzismo e, sul piano medico, quel fenomeno di impermeabilità diagnostica tante volte osservato. Il paziente resta, cioè, distante, studiato, analizzato ma non interpretato.


Cosa auspica, dunque, per il “professionista sanitario dell’area mediterranea”?


Per ridare al medico quel grado di umanità nei rapporti con i pazienti che la tecnolgia esasperata gli ha sottratto, il “professionista sanitario dell’area del mediterraneo” deve saper rappresentare queste qualità che tra l’altro, come ha dimostrato la storia fino ad oggi, fanno parte del suo DNA. Egli non è un tecnico e non lo sarà mai ed il suo paziente non è una macchina ma un uomo unico ed irripetibile. La medicina deve molto a Claude Bernard che nella sua famosa “Introduzione allo studio sperimentale della medicina” sancì il definitivo distacco della medicina dalla magia e per certi versi anche dalla filosofia, ma deve recuperare tutte quelle discipline cosiddette ermeneutiche, come la filosofia stessa, l’antropologia e la sociologia senza le quali non sarà mai in grado di dare risposte efficaci all’uomo-malato soprattutto se di cultura diversa.


Da questo punto di vista, il variegato patrimonio culturale può essere un’occasione di crescita…


Certamente. Il fatto che il “background” sia “così multietnico” non costituisce affatto un problema ma anzi un ulteriore opportunità: bisogna però intendersi sul termine cultura che va considerata per quello che è, semplice modalità di essere nel proprio rapporto con agli altri e con il mondo, dandole il giusto peso, non certamente sottovalutandola, ma neanche sopravvalutandola come se si trattasse di una vera e propria gabbia: non dimentichiamo che l’uomo viene sempre prima della cultura e non viceversa: “in fondo siamo fatti tutti della stessa pasta umana”. Questa grande passione per l’uomo così peculiarmente impastato di corpo, spirito, società e cultura è ciò che intendo per mediterraneità.


Come può la Medicina italiana fare tesoro dell’esperienza di confronto con gli altri Paesi mediterranei?


Se la medicina in Italia saprà riflettere sul senso della multietnicità al suo interno e capirà la grande opportunità che le viene offerta, sarà in grado di dare risposte efficaci non solo al paziente eteroculturale ma anche a quello isoculturale, perché avrà recuperato il senso di se stessa.
Occorre un vera e propria rivoluzione, quasi un nuovo “Paradigma” e bisogna iniziare dalla formazione dei futuri medici ed anche di quella  dei cosiddetti formatori. Ciò che è stato fatto fino ad ora con i corsi di storia della medicina, di bioetica e di filosofia della scienza per gli studenti del primo anno, è molto poco; bisogna intervenire in maniera più pesante negli ordinamenti didattici della facoltà medica per ridare dignità e prestigio “mediterranei” alla figura del medico.

Autore: Redazione FNOMCeO

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