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Verso il Convegno “La scienza medica al servizio dell’umanità”. Alzheimer: alla ricerca delle molecole “killer” che individuano la malattia vent’anni prima dei sintomi. Colloquio con Massimo Tabaton, Professore Ordinario di Neurologia Università degli Studi di Genova

1.241.000, che diventeranno 1.609.000 nel 2030 e 2.272.000 nel 2050: tante sono, secondo le stime dell’Osservatorio dedicato dell’Istituto superiore di Sanità, le persone con demenze in Italia. Di queste, il 50-60%, oltre 600mila, hanno la malattia di Alzheimer. I costi ammontano a 37.6 miliardi di euro, senza tenere conto dei circa tre milioni di familiari che ruotano intorno al milione di persone stimate, e che incidono in misura considerevole sullo scenario globale del peso socio-sanitario e della spesa.

È una vera e propria emergenza sanitaria globale, dovuta all’invecchiamento generale della popolazione, tanto che l’Organizzazione mondiale della Sanità considera le demenze, inclusa la malattia di Alzheimer (la forma più comune), una priorità mondiale di salute pubblica, evidenziando la necessità di prevenzione, diagnosi, trattamento e supporto ai caregiver. Secondo i dati dell’OMS, i casi di demenza nel mondo sono oltre 57 milioni e si stima che, per via dell’aumento progressivo dell’età media della popolazione, questo numero sarà destinato a crescere, raggiungendo i 78 milioni entro il 2030. Di tutti i casi, il 60-80% è rappresentato dalla malattia di Alzheimer. Sempre l’OMS stima che la malattia di Alzheimer e le altre demenze rappresentino la settima causa di morte nel mondo. 

“La malattia di Alzheimer – spiega il Presidente della FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, Filippo Anelli – è stata chiamata ‘il ladro silenzioso’, perché, senza dare sintomi evidenti nelle fasi inziali, si insinua gradualmente e insidiosamente nelle vite dei malati, rubandone ricordi, memoria, tempo, e delle loro famiglie. Fondamentale, dunque, la diagnosi precoce e la prevenzione, nell’attesa che anche in Italia siano disponibili, per i malati eleggibili, cioè che possono averne giovamento, i nuovi farmaci”.

Si parlerà anche di questo al Convegno “La scienza medica al servizio dell’umanità” che, organizzato proprio dalla Fnomceo, vedrà, il 27 e 28 novembre prossimi, confluire  a Roma esperti internazionali, per discutere sulle nuove frontiere della medicina.

 A fare un excursus sulle più moderne metodologie di diagnosi precoce per la Malattia di Alzheimer sarà Massimo Tabaton, Professore Ordinario di Neurologia all’Università degli Studi di Genova, uno dei più autorevoli scienziati, sulla materia, a livello mondiale. I suoi lavori, pubblicati su riviste ad alto fattore di impatto (fra cui NatureScience), hanno oltre 21.500 citazioni (h-index 71). È vicedirettore di Journal of Alzheimer’s disease, la rivista scientifica americana che pubblica esclusivamente articoli che riguardano le demenze degenerative e ha vinto, nel 2003, l’Alzheimer Award. A lui abbiamo posto alcune domande.

 Professore, a cosa è dovuta la malattia di Alzheimer? 

I principali indiziati sono due: due molecole “killer”, che hanno rivoluzionato sia la diagnostica sia la ricerca di farmaci per rallentare l’evoluzione della malattia. Si tratta del peptide beta-amiloide, neurotossico, componente principale delle placche che si trovano nel cervello dei pazienti, e della proteina tau, che normalmente contribuisce al funzionamento dei neuroni, ma che nella malattia si altera e forma dei grovigli neurofibrillari che “imbavagliano” i neuroni stessi, compromettendone la comunicazione e portandoli alla morte. 

In che senso la scoperta di questi meccanismi ha portato a un’evoluzione della diagnosi?

Perché ora andiamo a cercare i “colpevoli” direttamente sul luogo del delitto. E li troviamo anche vent’anni prima che il paziente sviluppi i sintomi.

Una vera e propria rivoluzione, se pensiamo che i primi criteri diagnostici per la malattia di Alzheimer fissati dalla comunità scientifica risalgono al 1984, e conducevano a una diagnosi probabile, perché la certezza diagnostica si aveva solo con l’esame postmortem del cervello.

Negli ultimi trent’anni, la ricerca attraverso l’analisi dei fluidi biologici e con la PET, la Tomografia a emissione di positroni, una tecnica di imaging, delle due molecole killer della malattia, la beta-amiloide e la proteina tau, ha inaugurato l’era dei biomarcatori, che hanno consentito di migliorare l’accuratezza diagnostica e di indicare il rischio di malattia in fase preclinica. Infatti, le alterazioni cerebrali iniziano all’incirca vent’anni prima della comparsa dei sintomi.

Perché è importante una diagnosi precoce?

Il precoce accertamento della patologia è fondamentale per l’inizio tempestivo delle terapie, presto disponibili anche in Italia, che rallentano la progressione della malattia. 

Può presentarci, in breve, questi nuovi farmaci? Sono adatti per tutti i pazienti o funzionano meglio in casi specifici?

Sono due anticorpi monoclonali, Lecanemab e Donanemab, che eliminano la beta-amiloide accumulata nell’encefalo. Riducono nel corso di un anno la progressione della malattia rispettivamente del 27% e del 40%. Hanno però effetti collaterali, microemorragie e edema cerebrale, che danno sintomi nel 4% dei casi. Queste terapie sono limitate a casi con demenza lieve, iniziale, e a casi di Mild Cognitive Impairment, una condizione che corrisponde a persone con esclusivo deficit della memoria e una normale attività sociale. In pratica, una fase prodromica di Alzheimer.

La scorsa primavera, la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha approvato il primo test del sangue in vitro per individuare l’Alzheimer nei pazienti con sintomi cognitivi. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di queste metodiche? Sarebbe auspicabile, a suo avviso, uno screening di massa?

Questo test non ha un’alta sensibilità, quindi ha falsi negativi, né un’alta specificità, quindi ha falsi positivi. Escludo uno screening di massa, sarebbe fuorviante.

Al di là delle terapie, esistono degli accorgimenti, degli stili di vita, utili a prevenire la malattia di Alzheimer? 

È dimostrato che la dieta mediterranea e l’attività fisica, ad esempio una passeggiata al giorno di 30 minuti, sono fattori di protezione, se eseguiti in modo continuativo nel corso della vita. Sono probabilmente protettive anche un’intensa attività mentale e di svago, anche se è difficile dimostrare scientificamente la loro efficacia.

Michela Molinari – Ufficio Stampa FNOMCeO

Autore: Ufficio Stampa FNOMCeO

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