Violenza nella coppia: riflessi sul tasso di natalità

Un’interessante ricerca illumina un retroscena socio-culturale poco noto che contribuisce ad alimentare la crescita demografica nei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo: la violenza sessuale, fisica o psicologica esercitata all’interno della coppia in relazione all’intervallo tra le gravidanze.

“Violenza nella coppia e intervallo tra gravidanze: risultati di una meta-analisi dei dati individuali dei partecipanti arruolati in 29 paesi a basso e medio reddito”, questo è il focus dell’articolo pubblicato da BMJ.

“Le gravidanze non adeguatamente distanziate nel tempo tra loro (quelle che per definizione si ripetono con frequenza inferiore ai 18 mesi) -viene affermato nell’abstract dell’articolo- inducono  un aumento della morbilità e della mortalità materna e infantile e, col passare degli anni, in ogni caso sono associate ad esiti sociali, educativi ed economici sfavorevoli sia per le donne che per i bambini. Quantificare la relazione tra violenza esercitata nell’intimità tra partner (IPV) e numero di gravidanze per donna è un passaggio fondamentale per quantificare l’impatto patologico correlato all’IPV”.

I ricercatori hanno arruolato donne di 29 paesi che hanno patito IPV in ambito sessuale, fisico o emotivo per identificare i periodi in cui il l’IPV subita poteva essere correlata ad un più alto rischio di gravidanza involontaria. Inoltre, attraverso una meta-analisi, sono state esplorate le variazioni transnazionali della relazione tra esperienza delle donne di IPV e periodicità di gravidanza.

Sono state valutate 52.959 gravidanze in 90.446 donne e l’esperienza di IPV raccolta dai ricercatori ha fatto registrare un aumento del 51% nel rischio assoluto di gravidanza con un incremento del 30% di rischio di gravidanza portata a termine. “In tutti i paesi –concludono i ricercatori- l’esperienza di IPV patita dalle donne è associata ad una riduzione del tempo intercorso tra le gravidanze e ad un aumento del rischio di gravidanze indesiderate; l’entità di questo effetto è variabile da paese a paese e nel tempo”.

Quest’ultima notazione è importante perché riporta la natalità in quella dimensione socio- culturale che di fatto la determina. Statisticamente, per analizzare i flussi della natalità,  si preferisce infatti fare considerazioni sul rapporto tra sviluppo economico e demografia e queste analisi possono arrivare ad un punto di complessità tale da entrare nella sfera della previsione probabilistica. Ad esempio, la denatalità imperante in Italia, secondo tali previsioni, porterà il nostro paese verso un “meticciato” sempre più imponente che, secondo valutazioni politiche divergenti, alcuni considerano una risorsa ed altri una sciagura da evitare ad ogni costo.

Ma l’evidenza statistica dimostra che lo sviluppo economico, segnatamente nella sua prima fase d’incremento, comporta, ovunque e invariabilmente, un aumento della natalità che, dalla fase del suo consolidamento, induce invece denatalità. La diminuzione delle nascite, come sperimentato quasi ovunque in Europa, quando si protrae nel tempo, per essere contrastata necessita di politiche sociali attente, precise e anche molto costose.

Sulle motivazioni culturali che sottendono queste due fasi contrastanti relative alla crescita o alla decrescita della popolazione correlata allo sviluppo economico, la pubblicistica è invece molto più scarsa. La stessa demografia, intesa come disciplina dello scibile, di sicuro studia il rapporto tra cultura, economia, flussi storici e sociali ma per elaborare più analisi descrittive che esplicative. Ad esempio, sui motivi antropologico-culturali che nel Secondo Dopoguerra hanno portato in Italia all’esplosione delle nascite e sulle cause della denatalità attuale in apparenza irreversibile, poco o nulla in realtà sembriamo conoscere. L’approccio demografico allo studio delle crisi economiche (che in Italia dal 1964 si alternano ciclicamente a momenti di espansione) non sembra impegnato a fornire spiegazioni sul fatto che la ricchezza individuale e collettiva di oggi (nonostante gli effetti di una gravissima crisi economica decennale) non è ad esempio nemmeno paragonabile con quella degli anni Cinquanta dell’altro secolo: un momento storico in cui si fecero tanti figli da rendere necessari i doppi turni nella scuola elementare proprio nell’epoca in cui il “Boom” finiva in maniera improvvisa per lasciare spazio alla “Congiuntura” (http://cronologia.leonardo.it/storia/a1964.htm), (https://www.filminitaliano.com/la-congiuntura.html).

Ma se alla fine degli anni Cinquanta fosse stata fatta in Italia una ricerca analoga a quella presentata in questo articolo da BMJ quali sarebbero stati i risultati? Impossibile rispondere a questa domanda. Sappiamo però che qualsiasi statistica relativa alla natalità correlata con lo sviluppo e il sottosviluppo non può essere caratterizzata da un alto tasso di diversità su base geografica: gli uomini appartengono infatti alla stessa specie e sappiamo che le razze umane sono destituite di ogni fondamento scientifico. Se si utilizza però un metodo d’analisi induttivo per tentare di ricostruire il clima culturale dell’Italia di quegli anni forse ci si può prefigurare uno scenario socio-culturale (oltre che economico) attendibile. Iniziamo allora col ricordare che le “case chiuse” vennero abolite nel 1958 e che le donne poterono entrare in Magistratura soltanto nel 1965 (http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-02-25/la-prima-giudice-corte-214516.shtml?uuid=AEK4QdZ).

A questi rilievi si deve aggiungere che la diffusione della “pillola” ebbe vita molto difficile nel nostro paese nello stesso periodo in cui il risultato dell’astensione periodica dal rapporto sessuale, utilizzato come metodo contraccettivo, produceva intere classi scolastiche di cosiddetti “Figli di Ogino-Knaus” (http://www.medicitalia.it/blog/ginecologia-e-ostetricia/1719-figli-ogino-knaus.html).

L’eredità di questo clima socio-culturale non favorevole è ancora oggi presente in Italia: il livello attuale di utilizzo della contraccezione ormonale continua infatti a non raggiungere quello registrato in molte altri paesi europei ed extraeuropei (http://www.linkiesta.it/it/article/2015/05/27/il-ritardo-dellitalia-su-contraccezione-e-pillola/26064/).

Non si può infine dimenticare che l’aborto clandestino sia stato, oltre ad un dramma per le donne, anche una piaga sociale orribile, di dimensioni preoccupanti (https://storicamente.org/aborto_clandestino) e non ancora debellata (http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=50025)  nonostante la legge 194 esista dal 1978 (http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2017/02/23/aborto-storia-della_9CwmbsIcFOExSobz9T09KP.html).

Se aggiungiamo che il delitto d’onore venne abrogato con la legge n. 442 del 10 agosto 1981, magari potremmo scoprire che la distanza socio-culturale che ci separa oggi da quei 29 paesi in relazione alla pratica dell’IPV nelle relazioni di coppia, negli anni ’50 e ’60 dell’altro secolo forse era decisamente irrilevante.

Fonte: www.torinomedica.com

Autore: Redazione

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