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Violenza sessuale commessa da uno psicologo psicoterapeuta nei confronti di una paziente

Cassazione Penale Sentenza n. 35145/2017Violenza sessuale commessa da uno psicologo psicoterapeuta nei confronti di una paziente – I giudici di appello hanno ritenuto che l’imputato, "utilizzando subdolamente la sua posizione di psicoterapeuta (…) ed approfittando di tale condizione per accedere alla sfera intima della persona offesa" nonché "della condizione di inferiorità psichica risultante dalla stessa richiesta all’accesso alle cure dello psicoterapeuta e dal rapporto di soggezione tra paziente e terapeuta", abbia posto in essere una condotta tale da indurre la F. "a soggiacere rispetto al rapporto sessuale, minandone la capacità di reazione e di opposizione", in questo modo rimanendo integrato, a cagione della indubbia violazione della libertà sessuale della donna, il reato in contestazione. Nel caso di specie la Corte territoriale ha chiarito, con evidente apprezzamento di merito, le ragioni, connesse alle "modalità subdole e insidiose attraverso le quali detta condotta si è estrinsecata, approfittando della condizione di supremazia dovuta all’esercizio della professione di psicologo psicoterapeuta", nonché "al grave danno morale e psicologico cagionato alla sua paziente", per le quali ha ritenuto di riconoscere la gravità della condotta ascritta all’imputato; ragioni che in quanto esplicitate in maniera del tutto logica, non appaiono sindacabili in questa sede.

FATTO E DIRITTO: Con sentenza del Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Roma in data 22/06/2010, emessa all’esito di giudizio abbreviato, B.M. era stato condannato, con la diminuente per il rito, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del reato previsto dall’art. 609-bis c.p. , comma 2, n. 1, commesso in (OMISSIS), per avere avuto un rapporto sessuale completo con F.C. contro la volontà della medesima, abusando delle sue condizioni di inferiorità psichica in quanto ciò avveniva durante una seduta terapeutica a cui sottoponeva la F. in qualità di psicologo che l’aveva in cura. In particolare, il primo giudice aveva ritenuto raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, ritenute sostanzialmente credibili, anche perché confermate dalle sommarie informazioni rese dalla teste C.D., con la quale ella si era confidata, nonché dalla dott.ssa G.P., ginecologa della A.S.L., alla quale la F. si era rivolta, raccontandole di avere avuto un rapporto sessuale non protetto con il proprio psicoterapeuta, senza coazione fisica, ma in quanto "vittima di plagio". Il giudice ritenne che dalla posizione dominante che il terapeuta aveva nei confronti della sua paziente, ma anche dallo stato di torpore che la stessa aveva riferito e che era stato descritto anche da C.D., dovesse ritenersi che la persona offesa si fosse trovata, nel frangente, in una condizione di inferiorità psichica, tale da viziare il consenso, apparentemente prestato, al rapporto sessuale. I giudici di appello hanno ritenuto che l’imputato, "utilizzando subdolamente la sua posizione di psicoterapeuta (…) ed approfittando di tale condizione per accedere alla sfera intima della persona offesa" nonché "della condizione di inferiorità psichica risultante dalla stessa richiesta all’accesso alle cure dello psicoterapeuta e dal rapporto di soggezione tra paziente e terapeuta", abbia posto in essere una condotta tale da indurre la F. "a soggiacere rispetto al rapporto sessuale, minandone la capacità di reazione e di opposizione", in questo modo rimanendo integrato, a cagione della indubbia violazione della libertà sessuale della donna, il reato in contestazione. I giudici di appello hanno concluso che la minore capacità della vittima di esprimere efficacemente il proprio dissenso fosse stata generata dalla fragilità psicologica che l’aveva indotta a richiedere il sostegno del terapeuta. Per effetto della nuova formulazione del delitto in esame, dunque, l’intervento punitivo consegue non già da un automatismo derivante dalla malattia mentale della vittima, quanto dal fatto che la persona offesa, la quale non deve versare necessariamente in uno stato di conclamata psicopatologia ma anche in una semplice condizione di menomazione dovuta sia a fenomeni patologici, permanenti o passeggeri, di carattere organico e funzionale, sia a traumi e fattori ambientali tali da incidere negativamente sulla formazione della personalità dell’individuo, venga indotta all’atto sessuale mediante abuso della predetta condizione di inferiorità, atteso che in tale evenienza il consenso, pur apparentemente prestato in un contesto di assoluta libertà, è in realtà viziato da una assente o diminuita capacità di resistenza agli stimoli esterni. In particolare, l’induzione si realizza quando, con un’opera di persuasione spesso sottile o subdola, l’agente spinge o convince il partner a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto; mentre l’abuso si verifica, a sua volta, quando le condizioni di menomazione sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona, la quale, versando in situazione di difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui.In sintesi, la norma in esame punisce come delitto il rapporto sessuale caratterizzato da un "qualificato differenziale di potere" conseguente alla strumentalizzazione della condizione di inferiorità del soggetto più debole. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha puntualmente posto in luce gli elementi che, con motivazione pienamente congrua sotto il profilo logico, sono stati ritenuti indicativi per un verso di uno stato di minore resistenza della F. alle suggestioni indotte dal contesto della relazione con B., apparentemente connotata in senso terapeutico ma in realtà interessata dalle subdole manovre seduttive dallo stesso agite, e per altro verso della consapevole strumentalizzazione della descritta condizione di fragilità psico-emotiva della donna, in grado di incidere sulla genuinità del consenso apparentemente prestato, anche per la repentinità dell’azione posta in essere. Nel caso di specie la Corte territoriale ha chiarito, con evidente apprezzamento di merito, le ragioni, connesse alle "modalità subdole e insidiose attraverso le quali detta condotta si è estrinsecata, approfittando della condizione di supremazia dovuta all’esercizio della professione di psicologo psicoterapeuta", nonché "al grave danno morale e psicologico cagionato alla sua paziente", per le quali ha ritenuto di riconoscere la gravità della condotta ascritta all’imputato; ragioni che in quanto esplicitate in maniera del tutto logica, non appaiono sindacabili in questa sede

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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