20 MAR – Gentile direttore,
non è ampio tra gli Ordini il dibattito sugli “Stati Generali della Medicina” eppure il disagio dei medici esiste. Forse non regge più la finzione per cui tutti i medici hanno gli stessi problemi mentre l’iscrizione all’albo unisce forzatamente interessi troppo diversi. Oppure la luce con la quale abbiamo illuminato la “questione medica” non è sufficiente.
Con sapiente saggezza Ottavio Di Stefano ammonisce dal “non perdersi in un fiume di parole” e di “non fare affermazioni non suffragate da dati obiettivi né da fonti bibliografiche”. La collega Ornella Mancin, pur in attesa di una rinnovata esegesi epistemologica dell’arte medica, ci ricorda i mille problemi dovuti agli “indebiti condizionamenti che limitano la libertà e l’indipendenza della professione”, come Mirka Cocconcelli.Sostiene la Mancin che i medici “sono cresciuti in una scienza creduta esatta” e ora sono compressi da linee guida e protocolli.
Da Venezia (un Ordine all’avanguardia) scrive il Prof. Luigi Tarca sintetizzando assai bene la logica di una crisi concettuale della scienza medica. Il problema della “identificazione del positivo -la guarigione- con la negazione del negativo- la malattia” è questione teoretica, ma incombe sulla discussione la forza dei risultati; “togliere il male è comunque un bene universale e innegabile”, il che conferisce uno straordinario potere alla medicina, sia pur al netto delle delusioni rispetto a eccessive speranze. Però nessun medico ha mai pensato che la salute fosse il contrario della malattia e viceversa; un confronto assai interessante da proseguire.
A mio avviso, da medico non da filosofo, per trovare il bandolo della discussione sul disagio dei medici è convincente quel che scrive Maurizio Benato: la medicina è una scienza applicata (“una prassi che si avvale di scienze e che agisce in un mondo di valori” secondo Giorgio Cosmacini) che “in quanto scienza richiede una teoria della conoscenza e in quanto scienza applicata richiede una teoria della congruenza tra azione e risultati possibili”.
I paradigmi scientifici cambiano; basta pensare all’ultimo mezzo secolo (i miei anni di laurea), da un paradigma quasi ancora monocausale, alle scienze omiche, ai big data che ci portano alla precision medicine, mentre il fenotipo e il paradigma eco-bio-psico-sociale recano con sé una nuova complessità.
La medicina come scienza, sostiene Benato, ha un diverso spazio rispetto dalla nozione storica, culturale e etica della malattia. Negli ultimi tempi le medicina nomotetica ci ha sovrastato ma oggi stiamo riscoprendo l’ermeneutica, la diagnosi di competenza medica, e stiamo oggettivando la complessità (con qualche rischio a mio parere!). Benato afferma, e è condivisibilissimo, che “non c’è crisi della medicina scientifica” ma “solo la necessità della riscoperta della natura interpretativa del procedimento clinico” e, allora, “la crisi professionale del medico è anche crisi della medicina? E quanto un aggiornamento epistemico fornisce soluzioni a questa crisi?”.
Sono d’accordo: è in crisi il medico o la medicina? Dalla risposta dipendono le proposte che i medici attendono.
Il medico applica le conoscenze scientifiche alle esigenze della società, cioè al miglioramento della salute pubblica e alla guarigione o almeno al controllo della sofferenza. Per rendere effettuali questi valori la Repubblica che “tutela la salute come diritto dell’individuo e interesse della collettività” ha inventato il Servizio Sanitario Nazionale.
Ma intanto sono accadute altre cose. Il medico fino a pochi decenni fa non subiva molti lacci; l’esperienza dei maestri sovrastava la precisione delle evidenze, nelle osterie di campagna un cartiglio ammoniva che “gli errori dei ricchi li copre il denaro gli errori dei medici li copre la terra”, sul piano politico i medici anche allora contavano poco ma nessuno li disturbava con i conti della spesa. Ora il medico deve render conto a tre padroni, la scienza, il paziente e l’amministrazione e, a causa dell’accountability, si è caricato anche di qualche senso di colpa.
Il cittadino vuole tutto, il buon medico e il medico buono. Altresì, benedetta ECM, come avremmo potuto mettere ordine nella strabordante produzione scientifica moderna? E in caso di infarto il paziente vuol fatti non parole. La scienza pone limiti; ma li pone anche il paziente che vuole tutto, il miracolo e l’empatia; infine gli immani costi della sanità esigono amministratori occhiuti.
Tutte ciò è ineliminabile e perfino corretto. Ma pone condizionamenti all’agire medico che non erano né preventivati né prevedibili, nell’idea che il medico si era formato di sé stesso e che considerava alla base del suo ruolo.
Proprio di questo occorre discutere. Il metodo e l’episteme cambiano la professione con l’aumento delle conoscenze e con l’incremento della tecnologia. Montaigne scriveva che i medici “conoscono bene Galeno ma male il malato”. Però Harvey era già nato e da allora, in realtà già da Ippocrate, il medico ha sempre ragionato sul malato. I fatti della scienza e i fatti del malato si esprimono nel valore della cura. “Che cosa è il malato più di che cosa ha” afferma Osler.
Quindi niente di nuovo se non un necessario adeguamento del curricolo formativo piuttosto antiquato. I medici non possono sfuggire alla crisi della società, crisi etica, politica, sociale, ideale. Il bandolo della matassa del disagio dei medici risiede nell’imposizione di limiti e di condizionamenti al loro lavoro, inoltre quasi mai concordati. Qualora si attivasse un confronto con i politici e la società su questo disagio, troveremmo scarsa preparazione e poca attenzione ma i medici, da parte loro, hanno proposte concrete e unitarie?
Queste sono il concreto oggetto degli Stati Generali; un ragionamento sui limiti giuridici, le linee guida; sui limiti economici, il costo delle decisioni; su quelli amministrativi, quanta burocrazia è sopportabile; su quanti medici occorrono ovvero se i medici sono un’elite e così via.
Purtroppo l’Italia non sta bene: la crisi economica e il sottofinanziamento del servizio, il consumerismo sanitario, la trasformazione del rapporto medico paziente in procedura giuridica, la transizione epidemiologica e l’iperspecificità tecnologica che frammenta il sapere medico, infine la crisi del mercato del lavoro, tutto crea un pessimo clima sociale.
In tal modo la dimensione micro della sanità, cioè la clinica, non trova facile correlazione con la dimensione organizzativa, la governance, e neppure con la politica per cui il nostro servizio rischia più per insipienza o dabbenaggine che per malizia. La “dominanza medica” nella sanità, invenzione del secolo scorso, è in crisi e il medico è a disagio.
Gli Stati Generali hanno l’ambizione di disegnare una sanità a misura di cittadini e di professionisti. Quanto dipende dai fati avversi, dalle stelle maligne, o dagli stessi medici? I quali non possono pensare che il modello di produzione e l’utilizzo delle risorse non nasca almeno da una contrattazione.
Occorre esaminare il trade off tra la razionalizzazione manageriale della medicina e l’emporwerment del paziente, insomma la convivenza tra tecnocrazia e umanizzazione: efficacia, efficienza e utilità per il paziente. La razionalità delle procedure amministrative e cliniche aumenta la fiducia del cittadino? Come rendere compatibili equità e competizione? La logica del mercato produce efficienza ma anche soddisfazione dell’utente? Una sanità razionale, competitiva e integrata consente ancora una dominanza medica? Perché occorre aggiungere alla miscela anche l’empowerment, l’equità e il pluralismo di valori.
La scienza procede, la società si trasforma, la politica che deve fare? L’intendence suivrà, diceva Napoleone. I medici si scontrano con i limiti posti all’antica dominanza: di questo dobbiamo parlare.
Interviene nel dibattito anche una giovane e preparatissima collega, Brenda Menegazzo sostenendo che i giovani sono disposti a cambiare paradigma, anzi vivono già nel futuro. Ogni medico dal tempo di Ippocrate ha cambiato modo di pensare solo che adesso accade più volte nella vita; a life for learning senza perdere mai curiosità e umiltà.
La collega sostiene che “il sistema appare vicino al capolinea e ci considera pedine non risorse e niente può nascere senza il contributo dei giovani”. Non credo che i cittadini rinuncino a un diritto così faticosamente conquistato, ma questa affermazione è vera; spetta ai giovani, con fantasia e entusiasmo, proporre soluzioni per riavvicinare servizio e professione, medico e paziente e, inoltre, suggerire quel che manca nel palinsesto degli Stati Generali, la visione globale del problema. Non possiamo affrontare la questione medica senza tener conto di quel che accade nel mondo della scienza, dell’economia e della politica.
Rendere più congruo il servizio sanitario con i diritti dei cittadini e con le esigenze professionali, rendere più agevole la vita del medico quale interprete della scienza presso la società, è un’opera di per sé meritoria.
Antonio Panti
Pubblicato su QuotidianoSanità
Autore: Redazione