Cassazione Civile Sentenza n. 20210/16 – Verifica della malattia – La condotta del lavoratore che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata – la cui gravosità non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena – senza svolgere una ulteriore attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento al danni dell’interesse del datore di lavoro, dovendosi escludere che il lavoratore sia onerato a provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all’attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro.
FATTO E DIRITTO: La Corte di Appello di Milano, adita da C.F. avverso la pronuncia, pubblicata mediante deposito il 10 marzo 2011, con il rigetto delle domande del predetto, in parziale riforma della stessa, con sentenza del 13 dicembre 2012 / sei giugno 2013, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato da (Omissis) s.r.l.. Il 24 luglio 2009, con la condanna di parte convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al risarcimento del danno, come ivi precisato, detratto l’aliunde perceptum come da scheda professionale ed estratto conto previdenziale I.N.P.S.; compensava per la metà le spese di lite, per il resto liquidate a carico della soccombente, avendo infatti respinto l’interposto gravame relativamente alle altre domande del C., anch’esse respinte in primo grado. Al riguardo, per quanto nella specie ancora interessa, secondo la Corte milanese, previo esame della contestazione disciplinare in data 9 luglio 2009 (relativa ad assenze per malattia come da certificati medici attestanti Impedimento di recarsi al lavoro, essendo impossibile qualsiasi forma di deambulazione… era tuttavia emerso in base alle disposte investigazioni che tra il 17 ed il 19 giugno, giorni nei quali era assente per malattia, che egli si spostava ripetutamente dalla sua abitazione, talvolta utilizzando addirittura l’automobile o un motociclo, nonostante l’asserita impossibilità di trasferimento extradomestico), detta contestazione alludeva a simulazione della denunziata malattia e comunque ad un comportamento inadeguato poiché fattore di rischio di aggravamento della patologia e di ritardo della guarigione.
Gli accertamenti investigativi disposti da parte datoriale si riferivano agli ultimi tre giorni della malattia durata due mesi, nel corso dei quali il lavoratore era stato sempre trovato a casa in occasione di sei visite di controllo. Il predetto, inoltre, era regolarmente rientrato al lavoro alla scadenza indicata nell’ultimo certificato medico. Pertanto, ad avviso dei giudici dell’appello, non vi era alcuna prova che il comportamento del C. avesse prodotto effetti pregiudizievoli, nei sensi sopra indicati, secondo altresì la citata giurisprudenza (Cass. n. 6375/2011), essendovi anzi la prova del contrario. Né sussistevano sufficienti elementi per ritenere, sia pure in via presuntiva, che la malattia fosse stata simulata e che pertanto il fatto addebitato potesse costituire violazione di un qualche obbligo gravante sul lavoratore, così da influire sulla prosecuzione del rapporto. Ne derivava, pertanto, l’illegittimità dell’impugnato recesso.
In primo luogo, deve osservarsi che il ricorso nulla precisa in ordine alla contestazione disciplinare (cui genericamente soltanto si accenna a pag. 8, punto 30, senza peraltro nemmeno alcun riferimento alla produzione, quindi eventuale, della lettera raccomandata 9 luglio 2009 ivi menzionata), essendosi in effetti limitato a riportare le risultanze della sola menzionata indagine investigativa, circa gli orari e i giorni in cui il C. era stata visto fuori casa, con la descrizione di quanto nella specie accaduto, ma senza riprodurre gli addebiti riguardo al pregiudizio, reale o potenziale, che tali condotte avrebbero comportato, segnatamente circa la guarigione (rallentamento o allungamento, oppure abbreviazione dei relativi tempi di recupero). Tali incidono, quindi, negativamente sulla autosufficienza dello ricorso, che invece a norma dell’art. 306 c.p.c. deve contenere, a pena di inammissibilità, tra l’altro, la sufficiente, ancorché sommaria, esposizione dei fatti della causa e la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e del contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda (v. altresì l’art. 369, comma 2, n. 4 del medesimo codice di rito, secondo cui insieme col ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità, gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali lo stesso si fonda). Né sussistono le prospettate violazioni o false applicazioni di legge, prospettate dalla ricorrente con il primo motivo, tenuto conto di quanto insindacabilmente accertato in punto di fatto dal competente giudice di merito e di quanto correttamente opinato in punto di diritto, richiamando il principio affermato da questa Corte con la citata sentenza n. 6375 del 21/03/2011, secondo cui la condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata – la cui gravosità non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena – senza svolgere una ulteriore attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento al danni dell’interesse del datore di lavoro, dovendosi escludere che il lavoratore sia onerato a provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all’attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro.
Quindi, la Corte territoriale, visto che la contestazione disciplinare alludeva alla simulazione della malattia denunziata e comunque ad un comportamento inadeguato, in quanto fattore di rischio di aggravamento della patologia e di ritardo della guarigione; considerato che i fatti contestati riguardavano unicamente gli ultimi tre giorni della malattia durata due mesi, nel corso dei quali il C. era sempre stato trovato in casa in occasione di sei visite di controllo e che era regolarmente rientrato al lavoro alla scadenza indicata; concludeva nel senso che non vi fosse alcuna prova che l’attore con tale comportamento avesse prodotto effetti pregiudizievoli nel senso precisato – essendovi anzi prova del contrario – e che non sussistevano elementi sufficienti per ritenere, ancorché in via presuntiva, che la malattia fosse stata simulata e che quindi il fatto addebitato integrasse violazione di un qualche obbligo a carico del lavoratore, donde l’illegittimità dell’Intimato recesso. Pertanto, del tutto legittima appare l’anzidetta decisione, visto tra l’altro che l’onere probatorio riguardo al licenziamento de quo restava a carico di parte datartele, contrariamente a quanto sul punto affermato con il primo motivo di ricorso, in buona parte peraltro come visto carente nella sua esposizione, sicché non possono ad ogni modo rilevare le diverse pretese o aspettative della società, laddove d’altro canto non avrebbero alcun senso le fasce orarie di reperibilità per le visite di controllo nel caso in cui si pretendesse la costante presenza domiciliare del diretto interessato (cfr. anche Cass. lav. n. 5747 del 25/09/1986, secondo cui il giudice del merito, nello stabilire se l’allontanamento dalla propria abitazione del lavoratore assente per malattia configuri o meno violazione degli obblighi di correttezza e buona fede del dipendente, volti a consentire l’esercizio del potere di controllo attribuito al datore di lavoro dalla legge n. 300/70, art. 5, deve tener presente che l’Interesse del datore di lavoro a tale controllo va contemperato con l’esigenza di libertà del lavoratore. Peraltro – ove accertata – la violazione di detti obblighi legittima il licenziamento per giusta causa solo se, valutata non solo nel suo contenuto oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva e In relazione alle circostanze del caso concreto, appaia meritevole della massima sanzione espulsiva, avuto riguardo al principio di proporzionalità stabilito dall’art. 2106 c.c.).
L’assenza del lavoratore dalla propria abitazione durante la malattia – benché possa dar luogo a sanzioni comminate per violazione dell’obbligo di reperibilità facente carico sul lavoratore medesimo durante le cosiddette fasce orarie ex art. 5, comma quattordicesimo, L. n. 638/1983 , tuttavia non integra di per sé un inadempimento sanzionabile con il licenziamento, ove il giudice del merito motivatamente ritenga che la cautela della permanenza in casa – benché prescritta dal medico – non sia necessaria al fine della guarigione e della conseguente ripresa della prestazione lavorativa, trattandosi di obbligazione preparatoria, che è strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto e come tale non è esigibile di per sé indipendentemente dalla sua influenza sullo svolgimento della prestazione lavorativa, senza che possa rilevare – al fine della valutazione della gravità dell’inadempienza del lavoratore e della conseguente sua configurazione come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento – la circostanza che l’inadempimento suddetto abbia pregiudicato, seppur gravemente, la attività produttiva e l’organizzazione del lavoro nell’impresa del datore di lavoro.