Cyberbullismo e sucidi: intervista a Diego De Leo

Cosa spinge una persona a desiderare la morte, e poi a varcare la soglia che dall’ideazione porta alla messa in pratica del suicidio? Esistono segnali che possono essere colti per prevenire questo atto estremo? E come aiutare chi resta? Sono queste le domande che ci assalgono ogniqualvolta sui giornali leggiamo la notizia di un suicidio. Perché un suicidio non è mai una morte qualunque, né può essere trattata come tale. Un suicidio porta con sé una scia di domande, di sensi di colpa. Un suicidio può essere il fallimento di tutta una società. Mai come in questo caso si riempiono di significato i versi di John Donne: “La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. Ma la nostra società oggi, nell’era dei social network, si estende ben oltre la rete di conoscenze reali: la vita degli altri, o meglio la facciata, la parte esibita, è a portata di click, con il suo carico di invidie, di sentimenti positivi e negativi; ma anche la nostra vita, la nostra privacy, viene data in pasto agli altri, rendendo pubblici episodi che vorremmo confinare nel privato. Così gli incontri diventano merci da consumare attraverso una app, i dialoghi sono vicariati da chat copia-incolla, il bullismo assume le connotazioni del cyber -bullismo. In questo mondo sempre più complesso, se da un lato siamo tutti più raggiungibili e meno soli – e può diventare più semplice cogliere segnali e richieste d’aiuto – dall’altra si moltiplicano le possibilità di manipolazioni, vessazioni e abusi che annientano l’autostima. Di queste tematiche si è parlato a Cortina, nell’ambito del Convegno del Triveneto’ ICT – privacy e tutela dei dati in Sanità’. Abbiamo voluto approfondire l’argomento con il relatore: Diego De Leo, psichiatra e psicoterapeuta, uno dei massimi esperti al mondo nel campo della prevenzione suicidaria.

Professor De Leo, le notizie di cronaca ci parlano sempre più spesso di adolescenti che si tolgono la vita dopo che loro immagini molto private sono state condivise sui social: cosa li spinge a un gesto così estremo?

Sicuramente scatta il sentimento di vergogna: la perdita della ‘reputazione’, della ‘faccia pubblica’ è vissuta come irreversibile e irrimediabile. L’atto sessuale, che doveva essere dono all’altro, una volta esposto diventa pubblico e viene quindi ‘svenduto’. E questo accade o per leggerezza – della stessa vittima, del partner, degli amici – o per aggressività, per desiderio di rivalsa, di vendetta ma anche per violenza fine a se stessa, o per liberarsi della persona: non ti voglio più, non posso eliminarti e quindi distruggo la tua immagine così non mi cercherai più. Questi sono fenomeni gravissimi, perché raccolgono una pubblicità enorme in termini di curiosità, di condivisione. È come se centinaia di migliaia di persone diventassero potenziali spettatori di situazioni private. E questo, soprattutto in un’età fragile come l’adolescenza, in cui la personalità è più che mai in costruzione, può segnare per la vita. Questa è una delle conseguenze di internet: se in passato si conservava la speranza che l’infrazione di una regola rimanesse confinata alla conoscenza di pochi, divenendo tutt’al più oggetto di pettegolezzo, oggi non più. E questo condiziona il futuro professionale, la speranza di una vita serena, la possibilità di riguadagnare la considerazione tra i tuoi pari. Ogni paragone di queste forme estreme di cyber bullismo col bullismo scotomizza la dimensione ciclopica che ha internet in termine di larghezza e di velocità di diffusione dei contenuti, che restano il più delle volte a futura memoria.

“Non buttiamoci giù” è il titolo di un romanzo di Nick Hornby dal quale è stato tratto anche un film, e che parla di un ‘patto di non suicidio”: quattro sconosciuti si incontrano sul tetto di un grattacielo ciascuno con l’intenzione di buttarsi e decidono di concedersi altro tempo per vedere che direzione prenderanno le loro vite. Più comuni nella realtà, purtroppo, i ‘patti suicidari’, in cui una coppia o più persone pianificano insieme il suicidio per infondersi coraggio. Come cambia questo fenomeno nell’era di internet?

Se un tempo i patti suicidari, i cosiddetti ‘suicidi romantici’ o ancor più i ‘patti criminali’ per istigare al suicidio esistevano in forma sporadica, oggi sono esponenzialmente aumentate le possibilità che persone anche lontane o sconosciute possano interagire e aiutarsi a trovare il coraggio e il modo per mettere in atto il piano. Ha fatto scalpore un patto suicidario tra un norvegese e un’australiana, seguito da molti altri esempi e che, soprattutto in Asia, ha trovato diversi imitatori che si accordavano per suicidi di gruppo attraverso l’inalazione di carbonella. Qui la molla è un volano che gira molto velocemente e si alimenta sotto la spinta di diversi fattori: lo spirito di emulazione, la romanticizzazione del gesto, che a sua volta attira una curiosità morbosa e quasi eroicizza persone che non si sentono nulla nella vita e che credono, almeno nella morte, di poter avere una ribalta. I social stanno cercando di reagire ma siamo alle prese con un macchina inarrestabile, con un meccanismo difficilmente controllabile. Ora Facebook e altri social hanno introdotto sistemi di riconoscimento di parole chiave che stimolano l’invio di un messaggio di ‘warning’ all’utente. Per la privacy, invece, non è possibile inviare analoghi messaggi agli amici o ai familiari.

Qualche anno fa si sentì parlare di Blue Whale, una ‘sfida’, lanciata su internet, in cui un così detto “curatore” poteva manipolare la volontà e suggestionare i ragazzi sino ad indurli al suicidio, attraverso una serie di 50 azioni pericolose. Poi la notizia sembrò archiviata tra le fake news: ma è davvero così? Le procure minorili, la polizia postale diffondono periodici inviti a non abbassare la guardia …

Sul Blue Whale stiamo ancora facendo le nostre valutazioni, perché forse qualche vittima l’ha fatta davvero e alcuni ragazzi sono entrati, per emulazione, in circuiti distorti di dinamiche persecutorie o di malintesa validazione personale. Basti pensare ai messaggi sui social diffusi da sedicenti cannibali che cercavano prede consenzienti: a questi appelli alcuni giovani hanno risposto. Ma anche senza arrivare a questi estremi, pensiamo alle manipolazioni, alle truffe, agli abusi su siti come Tinder o lo stesso Facebook: fenomeni che anni fa neppure si potevano prevedere e che oggi sono normalmente usati dagli adolescenti per conoscersi e incontrarsi.

Ci sono dei segnali che possono essere colti per capire le intenzioni di chi sta ideando un suicidio?

I segnali esistono ma purtroppo il più delle volte si interpretano ex post. Il più eclatante sono i cambiamenti comportamentali, l’abbandono di tutte le occupazioni che prima erano fonte di piacere, dello sport, ma anche la trascuratezza personale, dell’igiene, del modo di vestirsi e di apparire. Questa è una modifica comportamentale che va oltre la depressione, e se ne differenzia perché può anche intersecarsi con un piano diverso, quello del disappunto, della rabbia, della delusione. A volte i genitori, i familiari, persone molto vicine riescono a cogliere questi cambiamenti e a mettersi in allarme. A volte invece i segnali sono impercettibili, oppure la causa scatenante è un trauma discreto e inaspettato: un rifiuto sentimentale, un brutto voto. In questi casi intervenire è molto più difficile.

Parliamo di prevenzione: esistono delle linee guida?

La prevenzione del suicidio riguarda tutti noi: a un primo livello, quello sociale, la miglior prevenzione è ovviamente cercare di dare a tutti le condizioni di vita migliori possibili. A un secondo livello, quello psicologico-sociale ma anche clinico, non dobbiamo cedere alla tentazione di ghettizzare il fenomeno all’interno della malattia mentale, per una sorta di difesa collettiva. Uno dei nostri errori ‘storici’ è stato quello di etichettare ogni suicidio come esito di una depressione e di pensare che un farmaco sia la soluzione a tutto. Gli antidepressivi però non risolvono il problema, anzi a volte lo causano, dando al malato la forza per passare all’azione e mettere in pratica i suoi propositi. A livello professionale medico, il problema è nel tempo che possiamo dedicare ai pazienti. È più semplice offrire professionalità in senso tecnico che non in termini di accoglienza e di comunicazione. Questo spiega anche il successo di certi approcci omeopatici o naturopatici che privilegiano l’ascolto del malato. Dobbiamo sempre ricordare che il paziente non è interessato a sapere se il tal medicinale abbia superato o meno protocolli in doppio cieco: vuole sapere se lo farà stare meglio. L’ascolto è dunque fondamentale ma, per essere utile, dovrebbe essere ascolto attivo. Una buona strategia di prevenzione potrebbe essere rendere obbligatoria per i medici, per gli infermieri, per il personale sanitario, una formazione alla prevenzione del suicidio. L’Australia, dove lavoro da lungo tempo, si sta muovendo in questa direzione: la maggior parte dei medici di famiglia ha avuto un training specifico. Dobbiamo però tener presente che l’Australia ha un tasso di suicidi doppio rispetto a quello italiano. Qui da noi il fenomeno è più diffuso in Valle D’Aosta, Friuli, Umbria, vale a dire nelle regioni poco popolose, dove minori sono sia le occasioni di incontro e socializzazione sia le opportunità di realizzazione professionale. A Napoli, per contro, il tasso è molto basso, forse per il carattere comunicativo degli abitanti e per l’attitudine al sostegno della comunità, che sicuramente non ti fa sentire isolato.

A proposito di sostegno sociale: come possono aiutare i familiari, gli amici a prevenire un suicidio?

Se è vero che uno dei motivi che spinge al suicidio, in particolare nei casi di bullismo e cyber bullismo oppure nelle persone anziane o malate, è il senso di diversità, d’isolamento, di essere fuori dal mondo che gira, senza un futuro, privi di speranza o incapaci di vedere uno spiraglio, la prima strategia di prevenzione è non far mai sentire la persona isolata, non compresa, sola. Bisognerebbe istituire una giornata per combattere la solitudine. La solitudine è un vissuto qualitativamente caratterizzato, fa riferimento alla percezione dell’individuo di non essere compreso dagli altri e di poterne essere escluso; è quindi difficile da identificare in modo obiettivo. Dovremo lavorare ancora moltissimo per sentirci tutti come parte di una comunità unita e solidale, capace di farci condividere destini analoghi, ascoltandoci reciprocamente e aiutandoci l’uno con l’altro. Se ne saremo veramente capaci, questo ci aiuterà davvero a limitare il fenomeno del suicidio.

 

A cura dell’ufficio Stampa Fnomceo – Michela Molinari

 

Diego De Leo è uno psichiatra, psicoterapeuta, uno dei massimi esperti a livello mondiale in tema di prevenzione del suicidio. È Professore Emerito di Psichiatria, Doctor of Science in Psicogeriatria e Suicidologia, e Direttore Emerito del Centro Collaborativo della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per la Ricerca e la Formazione sulla Prevenzione del Suicidio dell’Istituto Australiano per la Ricerca e la Prevenzione del Suicidio presso la Griffith University di Brisbane che è il Centro Australiano di Eccellenza per la Prevenzione del Suicidio. Il Prof. De Leo è il Direttore del Dipartimento di Biopsicologia presso la Primorska University della Slovenia, dove dirige il Centro Nazionale per la Ricerca sul Suicidio. Il Prof. De Leo è Past-President dell’Associazione Internazionale per la Prevenzione del Suicidio e co-fondatore e Past-President dell’Accademia Internazionale per la Ricerca sul Suicidio. E’ l’ideatore della Giornata Mondiale della Prevenzione del Suicidio, che si tiene ogni anno il 10 Settembre.  Sul suicidio ha scritto anche il saggio divulgativo ‘Un’altra Vita’ Editore: Alpes Italia del quale è appena uscita la seconda edizione.

 

 

Autore: Michela Molinari - Ufficio Stampa FNOMCeO

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