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Donne in medicina. Le tappe di una riconquista. II parte

Un articolo di Franco Lupano, medico e storico della medicina.


Tutto sommato la storia di Adelasia Cocco, prima donna medico condotto in Italia, si svolge in modo abbastanza tranquillo e senza ostacoli significativi, superato lo scoglio iniziale. Si sposa, ha quattro figli, conduce un’intensa vita sociale e culturale: partecipa a congressi, si reca regolarmente sul “continente” per studio e per periodi di vacanza. Dunque un vita normale, di buon auspicio per tutte le colleghe che la seguiranno nella professione.

Anche la seconda donna a vincere un posto di condotta medica, Isotta Gervasi di Cervia, nel 1919, non sembra aver trovato barriere nell’esercizio della professione, salvo le difficoltà insite nell’esercizio della condotta: visite notturne, povertà diffusa che spesso vanificava l’efficacia delle cure, difficoltà di spostamento per la vastità della zona assegnata. Anche la dottoressa Gervasi frequentò assiduamente l’ambiente intellettuale dell’epoca, annoverando tra i suoi amici Marino Moretti e Grazia Deledda, che avevano scelto le coste romagnole come villeggiatura abituale.

Va detto che l’attività incondotta non comportava una diretta competizione con gli altri colleghi, e non vi erano certo problemi di concorrenza. Ben diversa sarà la situazione quando il confronto si sposterà negli ospedali e nelle università, come vedremo.

Nel frattempo il clima culturale in ambito maschile non cambia anzi, cresce l’allarme.

Una rivista del 1926, dal significativo titolo di “Roma Sanitaria e Lazio. Rivista autarchica di critica e movimento sanitario” pubblica nella rubrica Questioni d’attualità un articolo del prof. Giulio Palumbo che affronta il problema delle dottoresse. L’inizio non è lombrosiano: egli, considerando che nel 1925 le nuove iscritte alla facoltà di Medicina a Roma erano quarantaquattro, prevede che tale numero “salirà a proporzioni tali da sfatare nel modo più completo la leggenda dell’inferiorità cerebrale delle donne”. Ma subito riemerge una preoccupazione tutta maschile: “La studentessa in Medicina deve conoscere la struttura e la funzione di tutti gli organi nello stato sano e nelle deviazioni morbose, e deve conoscere come la sua collega in Giurisprudenza, tutte le degenerazioni ed i pervertimenti dell’amore”.

Quindi smentisce quanto ha affermato in apertura sostenendo: “L’opinione volgare che la donna più che col cervello ragioni col sentimento della sua femminilità non è destituita di ogni base scientifica, ma trova qualche appoggio nella teoria degli ormoni”. Teoria che peraltro non spiega, mentre si dilunga in una dotta di squisizione corroborata da citazioni da Virgilio e dalle Sacre Scritture per giungere alle conclusioni che è facile immaginare: “Nulla è mutato e nulla può mutare, poiché le leggi naturali sono inesorabili (…) e se la donna vuole eguali diritti,eguali doveri, eguali attività, eguali professioni dell’uomo, poiché il solo mascolinizzarsi non basta, bisogna che essa diventi neutra, o per dirla con un brutto neologismo, che si emuliebri”.

 Il professore sta solo scherzando, e nulla di ciò si avvererà: “Tanto più che le nostre dottoresse, così gentili, così colte e, soprattutto, così di buon senso, messe al bivio, nove volte su dieci gettano la tunica, cioè la laurea, alle ortiche, e dopo vari ondeggiamenti, finiscono collo scegliere occupazioni più consone alla natura muliebre, prima fra tutte quella di trovare un legittimo marito”. Una speranza che in alcuni casi si concretizza: infatti nel 1943 il professor Umberto Nuvoli, primario dell’Istituto Radiologico del Policlinico di Roma, pubblicando il volume “Conversazioni sui raggi X” vi pone questa dedica: “A mia moglie, preziosa compagna e collaboratrice, già studentessa di Medicina, che solo dopo avermi sposato comprese a pieno quanto saggiamente operò nel decidersi a non laurearsi”, ripetendosi poi nel 1950 nel pubblicare “La Radioterapia ad uso del Medico Pratico”: a simbolica dimostrazione che anche dopo la seconda guerra mondiale nulla è mutato, come diceva il prof.Palumbo.

Il processo di femminilizzazione della medicina ha una brusca accelerazione dopo il ’68.

Nel 1975, quando le donne medico sono il 15% (ma quelle che esercitano sono circa il 12%: il 3% che manca si suppone che siano… ritornate donne) e le studentesse il 24%, un’inchiesta di Tempo Medico documenta il persistere di pregiudizi “dei pazienti, degli enti assistenziali, dei dirigenti ospedalieri”, ma anche la determinazione delle donne a combatterli. La dottoressa Luisa Berardinelli, chirurgo a Milano, ammette che “la donna per fare strada deve essere un tantino più brava degli uomini”,ma non per questo deve scoraggiarsi: “Secondo me la rivoluzione dobbiamo farla innanzitutto dentro di noi. Finora ci siamo sempre tirate indietro, ora dobbiamo osare. Alla fine dipende da noi: la cittadella dell’uomo non è poi così imprendibile”. Non è imprendibile, ma assai resistente. “Alla docenza una donna non è mai stata portata in questo istituto universitario fino ad oggi” si sente dire Rosanna Viola, ginecologa, che, laureatasi nel 1949, dopo sette anni di lavoro in ospedale getta la spugna e si dedica alla libera professione a Milano, peraltro con piena soddisfazione. E Bruna Tossi Guareschi, medico di laboratorio, rincara la dose: “Non dipende dalla donna, che anzi spesso è più preparata dell’uomo, ma dall’atteggiamento dei medici maschi che sommano in sé l’attitudine oppressiva verso la donna propria dei maschi in generale con l’atteggiamento autoritario tipico dei medici in particolare: un cocktail di iniquità che la donna medico deve per forza subire”. Tuttavia la professoressa Maria Sandrucci, direttore della prima Clinica Pediatrica di Torino, prevede che “quando saremo tante quanto gli uomini, o più numerose ancora, le discriminazioni diventeranno anacronistiche”.

Anacronistiche sì, ma tutt’altro che scomparse. Quando giunge il sorpasso, con più del 50% di donne iscritte a medicina, arrivano gli ultimi colpi di coda: “Troppe donne a Medicina. Allarme in Europa” titola La Stampa del 23 giugno 2004. L’allarme per la verità è circoscritto al Portogallo dove il Ministro della Sanità esce con la dichiarazione che “il sempre più crescente numero di studentesse in Medicina sta provocando apprensione tra la classe medica. Se non si corre ai ripari, dovrà essere riservata una quota per gli studenti maschi” le quote azzurre? Naturalmente riconosce che le future dottoresse “sono più giudiziose e studiano di più” ma che “ci sono specialità che non sono fatte per le donne. Per esempio, gli uomini provano pudore nel farsi visitare da un’urologa”. Per fortuna il Ministro italiano della sanità di allora, Girolamo Sirchia, è di tutt’altro avviso. Perl ui il sorpasso femminile a medicina è “un dato estremamente positivo” anche senon resiste alla tentazione di fare sottili (e sibilline) distinzioni: “le donne spesso hanno un’operatività superiore, sono più attente al dettaglio,alla fattualità, mentre gli uomini in genere hanno maggiore visione d’insieme”; comunque “sono due modi di operare che si compenetrano efficacemente e si integrano a vicenda”.

Purtroppo tale generoso augurio nel giro di poco tempo non sarà praticabile, vista l’inarrestabile tendenza di questi anni, che viene ribadita da un articolo del Corriere della Sera del 26 settembre 2007: “Troppe donne medico. L’allarme dell’Ordine”. Le cifre parlano chiaro: “La professione medica cambia sesso. Già oggi le iscritte alle facoltà di Medicina e Chirurgia sono il 60%. Le proiezioni: nel giro dei prossimi 10 anni, ben 8 camici bianchi su 10 nasconderanno forme femminili. Preoccupazione degli ordini di categoria. Già a rischio specialità tradizionalmente «monosex», come chirurgia e urologia”. Non è chiaro in che cosa consista il rischio, se non quello di essere scalzati da concorrenti più preparate e più determinate.

Ad ogni buon conto, le previsioni sui numeri si stanno avverando, ma non pare siano emerse preoccupazioni. Il ruolo curante ritorna saldamente in mani femminili, come alle origini dell’umanità.

Autore: Redazione FNOMCeO

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