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“Immigrazione e sanità”: intervista a Maurizio Benato

A un anno dal Convegno di Padova sulla “Salute globale”, la Federazione ritorna su questo tema con il Convegno “Immigrazione e Sanità: un contributo dei medici italiani”, che si è tenuto l’8 maggio  a Roma presso la sede della Fondazione ENPAM.
Al dottor Maurizio Benato, vicepresidente FNOMCeO e presidente dell’Ordine di Padova, che fu promotore dell’evento dello scorso anno e che, con la sua relazione, ha aperto l’incontro di venerdì scorso, l’Ufficio Stampa ha voluto porre alcune domande.

La questione delle cure agli immigrati è stata, in questi ultimi mesi, ed è ancora  di grande attualità. Come si pone il medico, da un punto di vista bioetico e deontologico, di fronte a tale materia?

«La Salute è un bene inalienabile e un diritto primario ed universale dell’uomo: la sua tutela è un principio fondante della nostra Costituzione, rafforzato da dichiarazioni, convenzioni, patti e documenti internazionali, e reiterato nel nostro Codice Deontologico.
L’accesso all’assistenza pubblica, quindi, da un punto di vista bioetico, deve essere assicurato a tutti, italiani e stranieri, perché si tratta di un diritto individuale e al contempo collettivo: bisogna, cioè, tutelare la salute di ogni persona, indipendentemente dall’appartenenza etnica o culturale, anche al fine di garantire la salute della comunità nel suo complesso».

Il principio della tutela della salute, inteso come diritto del singolo, ma anche come dovere verso la comunità, deve, quindi, valere per tutti. Anche per chi non è in regola con la legge?

«Sì: anche gli immigrati clandestini e irregolari vanno curati, proprio perché la tutela della salute è un principio cardine della nostra Costituzione. Concetto rafforzato dal nostro Codice Deontologico che impone di assistere anche chi non è regolarmente inserito nel registro sanitario nazionale, per le sue condizioni di fragilità, di vulnerabilità e di bisogno, indipendentemente dall’appartenenza culturale (art. 3) e dal Principio di  solidarietà e di sussidiarietà, che prescrive di assistere anche il più debole e bisognoso».

Tutto questo sul piano bioetico… ma su quello pratico dell’esercizio della professione, quali sono le problematiche che un medico si trova ad affrontare?

«Nell’incontro con gli immigrati, il medico si confronta con molte differenze, sia sul piano etico, filosofico e culturale, sia su quello dei comportamenti inerenti a usi, costumi e tradizioni. Le culture e le religioni d’origine, infatti, guidano e condizionano le condotte individuali e collettive, e influenzano la scelta delle cure e la disponibilità alle terapie».

Può farci qualche esempio?

«Certo: la percezione della salute, della malattia, della corporeità e della morte, ma anche della relazione di cura, dipendono essenzialmente da fattori culturali. I casi pratici con cui medici e  infermieri si confrontano ogni giorno sono, quindi, numerosi e variegati. Ad esempio, molte pazienti di fede musulmana oppongono resistenza ad essere curate da personale sanitario di sesso maschile, se non in presenza di un’altra donna o di un parente.
Altre donne, per lo più arabe o cinesi, rifiutano di partorire con taglio cesareo. E, ancora, i familiari dei defunti uomini e di religione islamica considerano il fatto che la salma venga lavata e vestita da personale femminile un atto lesivo della dignità del morto, che compromette la salvezza eterna».

Ma le differenze culturali, al di là delle difficoltà pratiche, costituiscono anche e soprattutto un punto di forza…

«Assolutamente sì, tanto è vero che l’Unesco – l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura – definisce le diversità culturali addirittura un “patrimonio comune dell’umanità”.
Noi medici per primi, quindi, dobbiamo riconoscere che il Principio di uguaglianza va integrato con il “principio di differenza”, cioè con il rispetto della specificità di ogni cultura. Anzi, il rispetto dell’identità e della diversità culturale è espressione proprio del Principio di uguaglianza, che garantisce uguale diritto di cura a chi è differente».

E come si può concretizzare tutto questo?

«È fondamentale, per raggiungere questo obiettivo, partire dalla formazione del personale sanitario e dei servizi sociali. Formazione che deve comprendere la conoscenza della lingua e, in particolare, della  terminologia medica, quella delle patologie endemiche nei Paesi d’origine, e dei contesti giuridici e culturali. Ma, soprattutto, la consapevolezza, e, quindi, il rispetto delle diverse concezioni della vita e della morte, della salute e della malattia.
Per dirla con il Manifesto di Padova, approvato dal Consiglio Nazionale e poi presentato in occasione del Convegno “Salute globale”: “Dovere del medico è il riconoscimento delle specificità culturali di ciascun paziente adattando ogni intervento sanitario a bisogni culturalmente connotati, privilegiando il dialogo per conciliare libertà comune e appartenenza specifica”».

Autore: Redazione FNOMCeO

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