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“Pornografia della povertà”: nuovo approccio per il fundraising?

In un editoriale dal titolo “Fame di Spot” (vedi) la rivista Africa si chiedeva quale fosse ilconfine tra uso e abuso delle “immagini di dolore”. È lecita e fin dove si può spingere la sollecitazione della sensibilità collettiva? La domanda, retorica, si riferiva nello specifico alle campagne di comunicazione delle Ong e alla stereotipia pietistica con cui impostano spesso le loro strategia pubblicitarie. Soprattutto su minori e nei Paesi in via di sviluppo.
Ragionando sugli stessi temi, l’associazione delle Ong irlandesi Dochas ha proposto una procedura molto semplice: se le immagini usate dalla Ong paiono troppo semplicistiche o deliberatamente fuorivanti, è bene che l’Ong lo sappia, quindi bisogna contattarla e segnalarglielo. (vedi). Non a caso la Dochas ha stilato un Codice di Condotta specificatamente dedicato alle strategie di comunicazione (vedi), messo a punto nel 2007 e al momento sottoscritto da 80 organizzazioni, alle quali è certamente utile ricevere un feedback sulle loro campagne. Lo stesso suggerimento è stato ripreso dal blog italiano per la cooperazione internazionale Info-cooperazione (vedi), che però non usa i toni pacati dell’associazione irlandese,denunciando sia il vizio di speculare su sofferenza e disagio sia la disponibilità (nostra) ad accettarlo: se ciò che viene definito “pornografia della povertà e del dolore” è ancora tanto diffuso, “evidentemente raccoglie ancora consenso e buone redemption in termini di raccolta fondi” (del resto è “puro marketing”).
Certo è che l’immagine dei Paesi in via di sviluppo nel mondo occidentale, in particolare dell’Africa, rimarrà un insieme di contraddizioni senza il punto di vista dei diretti interessati. E una domanda di metodo non può che nascere naturalmente da queste riflessioni: i così detti "venditori di poverà", così come spesso vegono definiti gli esperti di comunicazione o i dialogatori a cui è affidata la "vendita del prodotto", quanto conoscono della realtà che descrivono? E quanta strategia integrata c’è tra ONG e agenzia pubblicitaria ingaggiata?
Un esempio di questo scollamento è il caso del padiglione del Kenya alla Biennale di Venezia: sarebbe un paradosso, se non fosse un semplice “pasticcio in salsa coloniale” (vedi). In rappresentanza del paese, i due curatori incaricati hanno selezionato undici artisti di cui una sola originaria del posto. Gli altri sono un italiano e nove cinesi. Un’incongruenza apparente, perché in realtà rispecchia gli orientamenti dei nuovi assetti geo-politici ed economici, che il sistema dell’arte “globale” riflette a sua volta con chirurgica precisione.

S. Boggio 

Autore: Redazione FNOMCeO

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