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Responsabilità penale del medico di medicina generale per omessa diagnosi di patologia cardiaca in atto

Cassazione PenaleResponsabilità penale del medico di medicina generale per omessa diagnosi di patologia cardiaca in atto – La Corte di Cassazione ha affermato che l’assunto secondo cui un corretto intervento in occasione del primo infarto non avrebbe scongiurato il ripetersi di altri attacchi non ha alcun riconoscibile fondamento logico, né scientifico, essendo all’inverso altamente probabile e dotato di elevata credibilità razionale il convincimento contrario espresso in sentenza. E’ infatti nozione rientrante nel patrimonio comune quella che le cure e il monitoraggio di un soggetto infartuato siano mirate a prevenire anche il ripetersi di episodi analoghi (attraverso in particolare attività di monitoraggio di ore o giorni in terapia intensiva nella fase acuta o, in presenza di parametri vitali ormai stabilizzati, osservazione e cure in degenza ospedaliera ordinaria). (Sentenza n. 14013/15)

FATTO: Con sentenza del 30/9/2013 la Corte d’appello di Firenze confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarato N. P., medico di base, responsabile del delitto di omicidio colposo in relazione alla morte del paziente S.R., avvenuta per infarto del miocardio nella notte tra il 20 e il 21 giugno 2009, e lo aveva pertanto condannato alla pena (sospesa) di un anno e quattro mesi di reclusione oltre che al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separata sede, e al pagamento in favore delle stesse di una provvisionale fissata in Euro 30.000,00 in favore di S.A. e in Euro 10.000,00 per ciascuna delle altre parti civili, S.C. e S. A.. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato.
DIRITTO: La Corte territoriale riteneva dimostrata la fondatezza dell’accusa secondo cui il N. – ai quale il S. si era rivolto in due occasioni, rispettivamente l’11 e il 18 giugno 2009 – aveva erroneamente valutato i sintomi riferiti dal paziente, non diagnosticando la patologia cardiaca in atto già alla data del primo accesso e omettendo pertanto di indirizzarlo verso gli opportuni accertamenti e approfondimenti specialistici e i conseguenti trattamenti terapeutici che, con elevata probabilità, se tempestivamente posti in essere, avrebbero evitato il decesso. Secondo i giudici distrettuali, infatti, gli episodi infartuali non potevano essere visti come fatti distinti tra loro, come se il S. fosse deceduto per una patologia diversa, non collegata al primo malore; né poteva dubitarsi, alla stregua di quanto affermato dai consulenti, che accertamenti clinici adeguati (ECG, ecografia, etc.), effettuati subito dopo l’infarto dell’11 giugno, avrebbero portato a rilevare il verificarsi dell’infarto, così indirizzando il paziente verso un percorso terapeutico corretto ed efficace, tale, con ragionevole certezza, da evitare il ripetersi di episodi infartuali e, dunque, il decesso. La Corte di Cassazione ha affermato che  l’assunto secondo cui un corretto intervento in occasione del primo infarto non avrebbe scongiurato il ripetersi di altri attacchi non ha alcun riconoscibile fondamento logico, né scientifico, essendo all’inverso altamente probabile e dotato di elevata credibilità razionale il convincimento contrario espresso in sentenza. Al riguardo, la tesi del ricorrente secondo cui le valutazioni del c.t. circa la positiva incidenza di una terapia posta in essere dopo il primo episodio, con la formulazione di un indice di sopravvivenza pari a circa il 97%, andassero riferite esclusivamente alle conseguenze del primo episodio, è frutto di una lettura palesemente illogica, essendo evidente che il quesito al quale l’ausiliario era chiamato a rispondere era invece rapportato proprio al ripetersi, infausto, di crisi cardiache di quel tipo nell’arco dei successivi dieci giorni ed alle possibilità di prevenirle. In definitiva, ad essere palesemente destituita di fondamento logico, prima e oltre che scientifico, ed anzi intrinsecamente contraddittoria, è – come s’è detto – la tesi di fondo sostenuta in ricorso, secondo cui il percorso diagnostico e terapeutico al quale l’imputato avrebbe potuto e dovuto avviare il proprio assistito in occasione della prima visita "non aveva finalità di prevenzione di nuovi episodi … ma solo di cura e contenimento della patologia in corso", essendo nozione rientrante nel patrimonio comune quella che le cure e il monitoraggio di un soggetto infartuato siano mirate a prevenire anche il ripetersi di episodi analoghi (attraverso in particolare attività di monitoraggio di ore o giorni in terapia intensiva nella fase acuta o, in presenza di parametri vitali ormai stabilizzati, osservazione e cure in degenza ospedaliera ordinaria).Del resto "contenimento della patologia in corso" non altro significa, per l’appunto, che prevenire anche un prossimo ripetersi delle sue manifestazioni potenzialmente letali, del tutto prevedibile e anche prevenibile peraltro una volta che gli esiti dei dovuti accertamenti consentano di risalire alle sue quanto meno prossime e più probabili cause (es. pressione arteriosa, elevati livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue, etc.). Il ricorso va pertanto rigettato

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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