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Violazione delle norme sull’esercizio della professione medica

Cassazione Penale – Violazione delle norme sull’esercizio della professione medica – Somministrazione della cura ayurvedica quale unica terapia per la cura della fibrosi cistica – Nesso causale tra decesso del paziente e condotta colposa del medico. Spetta in ogni caso al medico curante non solo il compito di prospettare la certa inidoneità della terapia ayurvedica e dunque le reali conseguenze cui avrebbe condotto l’abbandono del percorso terapeutico tradizionale, bensì il dovere di coinvolgere nel processo decisionale i soggetti istituzionali preposti alla tutela pubblica del minore (il medico di base, il giudice tutelare, etc.) al fine di sollecitare un dialogo giuridicamente corretto e sostanzialmente più proficuo per l’individuazione del best interest del minore (Sentenza 8527/15)

FATTO: Con sentenza resa in data 31/10/2013, la Corte d’appello di Bologna ha integralmente confermato la sentenza in data 7/7/2011 con la quale il Tribunale di Bologna ha condannato S.G. alla pena di due anni di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, in relazione al reato di omicidio colposo commesso, in violazione della norme sull’esercizio della professione medica, ai danni di Sa.Al., in Bologna e Atri, il 21/6/2006 (giorno del decesso della vittima). All’imputato era stata originariamente contestata la violazione dei tradizionali parametri della colpa generica, oltre che delle norme deontologiche e delle regole di scienza medica richiamate nel capo d’imputazione, per aver sottoposto il piccolo Sa.Al., di cinque anni, affetto dalla nascita da fibrosi cistica, a trattamenti con medicamenti di non noto effetto curativo e non comprovata efficacia, facendo interrompere i corretti trattamenti medici seguiti dal paziente fino all’intervento del S. (avvenuto in data 1/9/2005).Tale condotta era stata seguita dall’imputato anche quando, a partire dal 12/6/2006, ebbe a manifestarsi, a carico del paziente, un’infezione respiratoria acuta conseguente a una riacutizzazione polmonare necrotizzante bilaterale in un quadro di fibrosi cistica, a causa della quale il piccolo Sa.Al. decedeva, dopo che l’imputato si era limitato (a seguito di meri consulti telefonici con i genitori) a far somministrare al paziente sempre gli stessi medicamenti, omettendo di prescrivere la necessaria terapia antibiotica da praticare in via endovenosa in ambiente ospedaliero. L’imputato ha sostenuto di essersi limitato ad offrire le prestazioni (dichiaratamente non salvifiche, né risolutive) specificamente richiestegli dai genitori del piccolo paziente, senza alcuna forzatura o surrettizia induzione, dopo che questi ultimi avevano già sperimentato l’inutilità dei percorsi terapeutici offerti dalla medicina tradizionale.

DIRITTO: La Corte ha dunque tratto, oltre ogni ragionevole dubbio, la conclusione dell’elevata probabilità logica (equiparabile al più alto livello di credibilità razionale) dell’avvenuto decesso del piccolo paziente per effetto dell’aggressione infettiva letale non adeguatamente fronteggiata con la necessaria terapia antibiotica (scientificamente sperimentata come efficace ai fini del contenimento del rischio infettivo) nella specie sospesa: decorso probatoriamente corroborato attraverso il complesso degli indici più sopra richiamati, in assenza di alcun elemento di prova contraria idoneo a fondare il ragionevole dubbio circa la possibile incidenza di un plausibile decorsi causali alternativi. Ciò posto, tenuto conto dell’avvenuta sottrazione del paziente alla necessaria copertura antibiotica per gli ultimi lunghi mesi della sua vita e, per converso, della pregressa idoneità della terapia antibiotica a mantenere sotto controllo l’andamento della patologia (anche grazie alle periodiche verifiche e alla somministrazione dei farmaci mirati), la corte territoriale ha persuasivamente evidenziato come proprio l’omissione dei periodici controlli medici e la mancata copertura antibiotica avevano reso il piccolo Sa.Al. indifeso rispetto alle aggressioni dell’infezione, la cui più recente repentina violenza avrebbe richiesto quella decisa risposta terapeutica (immediato ricovero in sede ospedaliera; antibiogramma;somministrazione massiccia e mirata di antibiotici per via endovenosa) che l’odierno imputato ebbe clamorosamente ad omettere. La Corte di Cassazione ha affermato che il complesso delle argomentazioni dettate nella motivazione della sentenza d’appello, in relazione alla ricostruzione del nesso causale tra il decesso del paziente e la condotta colpevole dell’imputato, deve dunque ritenersi completo ed esauriente, immune da vizi d’indole logica o giuridica, come tale pienamente idoneo a sottrarsi a tutte le censure sul punto avanzate dall’odierno ricorrente. Spetta in ogni caso al medico curante, non solo il compito di prospettare la certa inidoneità della terapia ayurvedica (di per sé sola insufficiente a garantire soluzioni terapeutiche realmente alternative a quella tradizionale, come pacificamente riconosciuto anche in questa sede dall’odierno ricorrente) e dunque le reali conseguenze cui avrebbe condotto l’abbandono del percorso terapeutico tradizionale, bensì il dovere – a fronte di una scelta genitoriale orientata in termini così palesemente e gravemente rischiose per la salute del figlio minorenne – di coinvolgere nel processo decisionale i soggetti istituzionali preposti alla tutela pubblica del minore (il medico di base; il giudice tutelare; etc.) al fine di sollecitare un dialogo giuridicamente corretto e sostanzialmente più proficuo per l’individuazione del best interest del minore; dialogo tanto più essenziale (e giuridicamente doveroso) là dove venga prospettata l’adozione di cure che (per la prevalente destinazione a garantire un accettabile standard qualitativo di vita in un quadro di accertata inguaribilità) valgano a proporsi come forme terapeutiche meramente palliative o compassionevoli).

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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