Cassazione Civile Sentenza n. 18567/18– Conservazione cartella clinica

Cassazione Civile  Sentenza n. 18567/18– Conservazione cartella clinica – Con riguardo al primo e terzo motivo del ricorso principale e ai tre motivi del ricorso incidentale, deve preliminarmente puntualizzarsi, con correzione sul punto della motivazione, che è ben vero, come evidenziato dai ricorrenti, che altro sia l’obbligo di compilazione della cartella clinica, certamente gravante anche sui medici; altro sia, invece, l’obbligo di conservazione della cartella clinica stessa. Infatti, tale obbligo di conservazione non può ridondare a carico del medico in termini assoluti. Ai sensi dell’art. 7 del D.P.R. 128/1969, per tutta la durata del ricovero, responsabile della tenuta e conservazione della cartella clinica è il medico (in particolare, il responsabile della unità operativa ove è ricoverato il paziente). Questi esaurisce il proprio obbligo di provvedere oltre che alla compilazione, alla conservazione della cartella, nel momento in cui consegna la cartella all’archivio centrale, momento a partire dal quale la responsabilità per omessa conservazione della cartella si trasferisce in capo alla Struttura sanitaria, e quindi alla direzione sanitaria di essa, che deve conservarla in luoghi appropriati, non soggetti ad alterazioni climatiche e non accessibili da estranei. L’obbligo di conservazione della cartella, come ribadito dalle successive circolari del Ministero della Sanità, è illimitato nel tempo, perché le stesse rappresentano un atto ufficiale.

FATTO E DIRITTO: Nel 2007 A. S., F. L. e F. L., nella qualità di congiunti di A. L., convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la —— Hospital S.p.A. per ottenere il risarcimento dei danni riportati da A. L., rispettivamente marito e padre degli attori, a seguito dell’intervento operatorio, di rivascolarizzazione miocardica tramite innesto di cinque bypass, eseguito in data 12 maggio 2005 presso la suddetta clinica, per risolvere una patologia di “sindrome coronarica acuta e stenosi dei vasi coronarici”. Evidenziavano come dopo l’intervento si fossero verificati problemi di instabilità emodinamica e di tenuta delle suture, che rendevano necessario un secondo intervento per revisionare le suture; che l’emergere di una infezione da stafilococco aureo con ascessualizzazione nel cavo mediastinico, nonostante la terapia antibiotica, aveva reso necessario un terzo intervento di revisione sternale. L’infezione non si arrestava e il 12.6.2005 si verificava il decesso del paziente. Gli attori sostenevano che il decesso fosse ascrivibile alla mancata sospensione del trattamento antiaggregante in corso, al mancato tempestivo inizio della profilassi antibiotica al fine di prevenire l’insorgere dell’infezione e al ritardo con il quale era stato eseguito l’intervento chirurgico per contrastare l’infezione insorta. Si costituivano altresì M. F. (anestesista) ed A. B. (assistente): quest’ultimo affermava che le scelte tecniche in paziente ad alto rischio come il defunto sig. L. competevano al C., capo equipe, che la terapia antiaggregante era stata correttamente sospesa prima dell’intervento, che il secondo intervento si era reso necessario ed effettuato non appena riscontrata la presenza di sanguinamento delle suture, e che la terapia antibiotica era stata correttamente eseguita, iniziata prima dell’intervento e poi modificata in considerazione della non reattività del paziente alle cure. La sentenza di primo grado. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 14891/11, depositata 1’11.7.2011, condannò la —— Hospital (d’ora innanzi, E.H.) e i medici C. e B. a risarcire i danni agli eredi L., pari a complessivi euro € 901.246,11. In particolare, preso atto che le parti convenute non avevano assolto all’onere della prova a proprio carico non avendo prodotto la cartella clinica, alla luce degli elementi presenti in atti il Tribunale riteneva sussistente il (solo) profilo di responsabilità relativo alla mancata prevenzione e al deficitario trattamento dell’infezione insorta, per omessa somministrazione di copertura antibiotica. La Corte d’appello, in limitato e parziale accoglimento dell’appello del C., ripartiva diversamente le responsabilità sotto il profilo interno: 80% in capo alla clinica, 10 % in capo al C., 5% ciascuno in capo al B. ed al F., il quale quindi veniva inserito nel novero dei soggetti solidalmente responsabili all’esterno, nei confronti dei parenti della vittima. Affermava che la causa della morte del L. doveva ricondursi alla comparsa di una infezione nosocomiale, imputabile a carenze strutturali e organizzative della casa di cura. La Corte d’appello arrivava a queste conclusioni facendo proprie le valutazioni conclusive cui era pervenuto il collegio peritale, che prendeva atto della parziale mancanza della cartella clinica (della quale nel 2013 la struttura sanitaria aveva denunciato lo smarrimento) e recuperava, con propria autonoma valutazione, i rilievi eseguiti dal consulente già in sede di accertamento tecnico preventivo nel 2007. Rilevava che, a fronte dei tre deficit di diligenza e di perizia individuati a carico dei medici, sarebbe stato onere degli stessi provare che la causa dell’insorgenza dell’infezione (individuata in sé come causa della morte del Liguori) fosse diversa e avulsa dall’intervento medico, al punto di costituirne una evoluzione anomala e imprevedibile. La Corte d’appello affermava che le carenze od omissioni (anche meramente documentali) della cartella clinica concernenti il caso clinico in esame non potevano ripercuotersi a danno del paziente perché si trattava di documentazione che è obbligo del medico e della struttura sanitaria non solo compilare ma, anche e soprattutto, conservare al fine di dimostrare la correttezza dell’iter diagnostico, terapeutico e curativo seguito nel caso concreto; e che ciò si rendeva oltremodo rilevante nel momento in cui i consulenti avevano comunque verificato ed evidenziato profili di colpa medica, per omissione di cautele o di terapie adeguate allo scopo, profili che venivano rafforzati (e non elisi) dalla non completa documentazione della cartella clinica che gli appellanti avevano il dovere di redigere; riteneva accertata la mancanza di copertura antibiotica precedente all’intervento, sulla scorta dell’affermazione dei consulenti tecnici d’ufficio i quali non avevano riscontrato la relativa annotazione nel foglio di visita preoperatoria; affermava ancora che, poiché nell’atto operatorio relativo al primo intervento chirurgico non era stata riportata la tecnica di prelievo delle arterie mammarie, si doveva dedurre che non fosse stata eseguita la scheletrizzazione bensì la peduncolizzazione, tecnica quest’ultima maggiormente invalsa sebbene meno efficace; riteneva infine che il comportamento dell’anestesista M. F. avesse contribuito al decesso del L., in considerazione della mancata somministrazione di antibiotico terapia nell’immediatezza del taglio chirurgico (imputabile in parte al comportamento dell’anestesista. Con riguardo al primo e terzo motivo del ricorso principale e ai tre motivi del ricorso incidentale (che appare opportuno, in questa sede, analizzare congiuntamente in quanto trattano profili analoghi), deve preliminarmente puntualizzarsi, con correzione sul punto della motivazione, che è ben vero, come evidenziato dai ricorrenti, che altro sia l’obbligo di compilazione della cartella clinica, certamente gravante anche sui medici; altro sia, invece, l’obbligo di conservazione della cartella clinica stessa. Infatti, tale obbligo di conservazione non può ridondare a carico del medico in termini assoluti. Ai sensi dell’art. 7 del D.P.R. 128/1969, per tutta la durata del ricovero, responsabile della tenuta e conservazione della cartella clinica è il medico ( in particolare, il responsabile della unità operativa ove è ricoverato il paziente). Questi esaurisce il proprio obbligo di provvedere oltre che alla compilazione, alla conservazione della cartella, nel momento in cui consegna la cartella all’archivio centrale, momento a partire dal quale la responsabilità per omessa conservazione della cartella si trasferisce in capo alla Struttura sanitaria, e quindi alla direzione sanitaria di essa, che deve conservarla in luoghi appropriati, non soggetti ad alterazioni climatiche e non accessibili da estranei. L’obbligo di conservazione della cartella, come ribadito dalle successive circolari del Ministero della Sanità, è illimitato nel tempo, perché le stesse rappresentano un atto ufficiale. Proprio per superare i problemi connessi allo smarrimento e alla deperibilità naturale delle cartelle, è in corso di realizzazione la digitalizzazione degli archivi sanitari, che comporterà il passaggio dalle cartelle cliniche cartacee alle cartelle cliniche digitali. Ne consegue che il principio di vicinanza della prova, fondato sull’obbligo di regolare e completa tenuta della cartella, le cui carenze od omissioni non possono andare a danno del paziente (si vedano, ex multis, Cass. civ., sez. III, 05-07-2004, n. 12273; Cass. civ. sez. III, 26 -01 -2010, n. 1538 e, di recente, Cass. n. 7250 del 2018), non può operare in pregiudizio del medico per la successiva fase di conservazione: dal momento in cui l’obbligo di conservazione si trasferisce sulla struttura sanitaria, l’omessa conservazione è imputabile esclusivamente ad essa. La violazione dell’obbligo di conservazione non può riverberarsi direttamente sul medico determinando una inversione dell’onere probatorio. Può convenirsi con l’affermazione del ricorrente secondo la quale i medici possono trovarsi, in caso di smarrimento della cartella clinica ad opera della struttura sanitaria, in una posizione simmetrica a quella del paziente, rischiando a loro volta di essere pregiudicati dalla impossibilità di documentare le attività svolte e regolarmente annotate sulla cartella clinica. Del resto, diversamente opinando, si finirebbe per violare quegli stessi principi in materia di prossimità della prova che ispirano le conseguenze pregiudizievoli per il medico che, dalla presenza di lacune nella cartella clinica, verrebbe diversamente a trarre vantaggio. 3.2. La valorizzazione del profilo appena esaminato non giova, tuttavia, per l’accoglimento dei ricorsi. Pur con la sopra indicata puntualizzazione, in ordine alla non condivisibilità nella sua assolutezza dell’affermazione secondo la quale anche l’obbligo di conservazione, oltre che quello di corretta e completa conservazione, della cartella clinica, gravi sul medico, deve in primo luogo evidenziarsi che, nelle cause di responsabilità sanitaria, il ruolo dei medici evocati in causa come convenuti insieme alla struttura sanitaria è -non meno che quello dei pazienti, o parenti dei pazienti che abbiano agito in giudizio – un ruolo attivo, nel senso che, ove convenuti, devono attivarsi per articolare nel modo migliore la propria difesa. Quindi, sono gli stessi medici, che abbiano scrupolosamente compilato la cartella clinica, a poterne e doverne richiedere copia alla struttura per acquisirne disponibilità al fine di articolare le proprie difese e di produrla in giudizio. Se non possono ritenersi gravati dagli obblighi di conservazione nei termini sopra indicati, essi non sono esenti dall’ordinario onere probatorio. Non possono pertanto con successo, qualora non abbiano essi stessi curato la produzione in giudizio della cartella clinica, e non abbiano la disponibilità della copia che avrebbero avuto l’onere, all’inizio della causa, di richiedere, pretendere che siano imputate alla struttura sanitaria eventuali lacune della copia della cartella clinica prodotta in giudizio se, come nella specie, la struttura sanitaria dichiari di aver smarrito l’originale della cartella. La motivazione della corte d’appello non perde poi di coerenza in ordine all’affermazione di una, seppur circoscritta, corresponsabilità dei medici neppure resecata dalla affermazione di addebito sui medici delle conseguenze in ordine alla mancata conservazione della cartella clinica. Il Giudice d’appello, nella sentenza impugnata, non ha condannato i medici appellanti solo sulla base del profilo dell’omessa conservazione della cartella, addossando su di essi, per una malintesa applicazione del principio di vicinanza alla prova, le conseguenze pregiudizievoli a loro non imputabili di un eventuale smarrimento della cartella nella sua integralità fisica. Al contrario, essa ha fondato la responsabilità dei professionisti su altri elementi di per sé idonei a sorreggerla (e, in particolare, su tre specifici e autonomi profili: anzitutto, la mancata somministrazione di antibiotico-terapia; in secondo luogo, la mancata sospensione in tempo utile della terapia antiaggregante piastrinica, comunque l’intempestivo adeguamento di misure terapeutiche di prevenzione nella fase successiva al primo intervento, cui si è aggiunta la mancata adozione -nell’ultimo intervento- di misure che avrebbero potuto contrastare l’evoluzione della mediastinite; infine, la mancata scheletrizzazione delle arterie mammarie nel primo intervento chirurgico), processualmente acquisiti, e in particolare emergenti dalle risultanze dell’accertamento tecnico preventivo (non successivamente smentite, e anzi sostanzialmente confermate dalla consulenza tecnica espletata nel giudizio d’appello). A fronte di questi dati medico/specialistici che la corte d’appello ha ritenuto accertati, a prescindere dalla lacunosità della cartella clinica, era specifico onere dei medici appellanti fornire la prova che l’insorgenza dell’infezione andava ascritta ad una causa diversa e specificamente accertata, e comunque del tutto avulsa dall’intervento medico eseguito al punto da costituire una evoluzione del tutto //2 anomala e imprevedibile. Questa prova, con accertamento in fatto non in questa sede ripetibile, la corte d’appello ha ritenuto non sia stata fornita. Non giova, infine, ai ricorrenti la generica invocazione della mancata partecipazione, da parte dei medici, all’accertamento tecnico preventivo (svoltosi nei soli confronti della Struttura sanitaria), e della conseguente inutilizzabilità delle relative risultanze.

Autore: Marcello Fontana - Ufficio Legislativo FNOMCeO

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